Avevo incontrato la pittura di Andrea Gammino alla Pinacoteca Albertina, nella mostra “Ad acqua” che raccoglieva le opere dei migliori acquerellisti torinesi usciti dall’Accademia Albertina.
Ho proposto ad Andrea Gammino una dimostrazione nel nostro laboratorio di acquerello e ha accettato volentieri. Mentre disponeva le sue attrezzature (ridotte al minimo) sul nostro tavolone, l’abbiamo subito messo alla prova chiedendogli un po’ di autobiografia. Volevamo sapere qualcosa di più su come fosse approdato a questo stile di pittura.
“Sono di formazione lombardo-piemontese e anche un po’ americana (ma vi spiegherò dopo perché): ho vissuto nella prima giovinezza in territorio lombardo e ho iniziato a frequentare l’Accademia di Brera, in quel momento vivace cenacolo di arte e cultura; poi la mia famiglia è tornata a Torino e negli Anni ‘90 sono passato all’Accademia Albertina, ancora molto legata all’insegnamento sironiano. In Lombardia seguivo Antonio Pedretti: da lui ho raccolto paesaggi dove il gesto crea spessi intrichi vegetali e la luce vive di contrasti molto forti. Ero affascinato poi da una certa pittura americana un po’ periferica. Dell’americano Wyeth mi colpiva il senso della solitudine, del realismo pacato, in contrasto con le effervescenze di Pollock o della Pop art.”
Mentre parla della sua esperienza, Andrea apre le due tavole in panforte che ha portato, su cui ha fissato con nastro di carta i fogli di Arches satinati. Gli avevamo chiesto una figura inserita in un paesaggio e osserviamo il disegno del volto a grafite, già chiaroscurato a tratti piuttosto forti, disposto su un lato. “Il disegno a grafite – spiega Gammino – sarà un appiglio fondamentale per lavorare con la massima libertà su un paesaggio che andrà a coinvolgere la figura stessa.” Con tratto nervoso di morbidissima 4b, sottolinea ancora alcuni punti, poi fa scendere sul disegno un velo d’acqua nebulizzato che fisserà almeno in parte la grafite.
Lascia asciugare, poi bagna nuovamente per sciogliere il tiziano dei capelli mediato tra arancio e verde, i pastelli chiari dell’incarnato, le macchie sapienti che andranno a creare, asciugandosi, quegli adorabili e quasi impalpabili depositi di pigmento che segnano ombre, creano piani e lasciano luci sul viso e sui capelli. Gli occhi grandi ed espressivi disegnati con cura, non li tocca neppure: basteranno un velo di ceruleo ad accendere lo sguardo e un tocco di magenta sulle labbra, quasi a fermare un punto di realtà in cui l’osservatore può perdersi in sogni e desideri.
E ora inizierà il tuffo in quello che è il punto di forza di Andrea Gammino. Ci racconta che proprio durante il Covid, forzatamente inattivo dopo il periodo di splendida collaborazione con Emilio Gargioni alla Galleria Davico, ha cominciato a sviluppare questo percorso che richiama i paesaggi informali del maestro Pedretti e la presenza alla Wyeth di figure che molto spesso parlano di solitudine,(vedi Il mondo di Cristina, opera famosissima) forse di separazione da un mondo che insegue bellezze artificiose e banalizza tutto.
Gammino ha trovato, nel nero di china, il nero capace di interagire, muoversi, scaldare perfino certi fondi bianchi o colorati, ma lasciare anche dei neri totali che una volta asciutti non si muovono più, dei veri buchi astrali che attraggono tutto e lo ingoiano.
Le figure su cui lavora, come quelle dei Beatles nella mostra “Nowhere land” alla Zaion Gallery organizzata a Biella da Marcella Pralormo, sono quelle di un pantheon personale, di antenati o persone che in qualche modo si raccontano e raccontano pezzi della sua storia. Qui nell’acquerello che nasce davanti a noi, il volto sottile e chiaro appartiene all’attrice americana Carol Kane. Come lo legherà al paesaggio? Siamo curiosi. Leggo una poesia di Valentina Colonna che crea atmosfere di temporali in arrivo, che mi sembra suggerire il paesaggio che ancora non c’è, ma uscirà nella libertà di velature di china nera, asciugate e riprese più volte, con i tempi necessari a far depositare macchie, crestine, quindi pigmento e in quelle veloci tracce graffiate sui depositi ancora morbidi a creare dinamicità.
Poi si fa strada la ricerca di un equilibrio che sarà dato dalle luci bianche, quelle della carta stessa e quelle ricreate con tempera bianca, spalmata corposa, poi di nuovo dilavata a colpi di spruzzi d’acqua, o che sarà reinventato, con un drastico cambio di formato, perfino da un taglio di forbici!
Avete già capito: è a questo punto che si crea la magia, quella che solo un artista vero sempre alla ricerca di un sé ancora nascosto, riesce a captare.
Figura e paesaggio a volte, non sempre ammette Gammino dichiarandosi ipercritico nei confronti del risultato, diventano un tutt’uno inscindibile, armonioso, diventano un racconto.
Noi, allora, possiamo metterci in ascolto.
Naz