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sabato, Giugno 21, 2025

    Ravel, l’uomo dei sortilegi

    Ho scoperto un posto di Torino che avevo fin qui  ignorato. Avendo ricevuto l’invito a una conferenza su Maurice Ravel – di cui quest’anno si celebra il 150° della nascita – mi sono mossa verso un non meglio identificato “Polo del ‘900” che ha sede negli antichi palazzi juvarriani di Corso Valdocco angolo Via del Carmine: un posto carinissimo, visto che sotto quei portici ci giocavo da bambina. Forse troppo presa da quegli antichi ricordi, avevo smesso di passare di lì, dove, nel corso degli anni, venivano effettuati restauri, e mi scuso se non sapevo dell’esistenza di questo “Polo”. Il quale, tra musei e salette per conferenze, possiede anche un bel localino in funzione di Auditorium. Lì mi attendevano dei torinesi Doc.

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    Vale a dire la perizia musicologica di Enzo Restagno e la magistrale abilità pianistica di Giacomo Fuga, con l’aggiunta dell’amichevole eloquio di Alberto Sinigaglia (musicologo parente di Leone Sinigaglia, il cantore del piemontesismo). E’ stato un momento di grazia poter seguire, con l’aiuto di tali abili divulgatori, le vicende compositive di Ravel che, benchè riguardanti il solo settore pianistico, hanno fornito un magnifico excursus dell’intera sua vita, dagli esordi deliziosi con la “Pavane pour une Infante défunte”, ai “Miroirs”, alla Sonatine, ai “Jeux d’eau” con “Une barque sur l’océan”, etc. Ed è stato proprio ascoltando questi brani che mi è venuto da pensare a due errori che spesso si commettono parlando di lui; il primo, come sia semplicistico e sciocco accoppiarlo a Debussy (talvolta ho commesso anch’io quest’errore), il secondo, come sia ugualmente fuori strada parlare di semplice  “impressionismo” per opere come quelle sopra citate.

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    Ravel è uno di quei compositori che col passar del tempo, come i vini,  acquisiscono gradazione alcoolica. Nato a Ciboure (località sui Pirenei vicino a Biarritz) può, anzi deve, essere definito non tanto  francese quanto “basco”. I geni materni presenti in lui erano “baschi” ed ebbero la meglio su quelli del padre (svizzero francese). Le sue avventure scolastiche al Conservatorio di Parigi ricordano un po’ quelle di Satie e Poulenc, vale a dire una storia di continue espulsioni e riammissioni. Tentò tre o quattro volte di concorrere per il Prix de Rome: sempre respinto a causa di una originalità di scrittura che non piaceva ai giudici parrucconi; l’ultima volta la sua esclusione causò un vero terremoto, la giuria fu ridicolizzata dalla stampa e il direttore del conservatorio dovette addirittura dare le dimissioni…

    Oggi a distanza di molti anni vediamo come i suoi lavori più celebri, quelli che coinvolgono la piena orchestra,  come il “Bolero”,  “Daphnis et Chloé”, “Ma mère l’oye”, “La Valse”, siano i prodotti di una razionalità condotta all’estremo, un fine gioco intellettuale che spesso assume senso attraverso tratti di lucida ironia. Questo vale anche per quello che per certi aspetti potrebbe ritenersi il suo capolavoro, “L’enfant et les sortilèges” (1925) operina su testo di Colette, che guarda con tenerezza al mondo dell’infanzia e ne evoca tutti i sogni e tutti i tabù, espressi con un’orchestra  brillante e geniale, con valori melodici e armonici che si intrecciano saldamente e creano una indovinata ma sempre misurata “féerie”.

    Fu forse per questa sua capacità di costruire meccanismi perfetti e logici che divenne il “mago dell’orchestrazione” che tutti noi conosciamo: l’Uomo, e non più il Bambino, dei sortilegi.  Basti pensare a cosa riuscì trarre dai piccoli brani pianistici di Musorgskij, “Quadri di una esposizione”. In molti, dopo di lui, si sono misurati in tentativi consimili, ma chi abbia sentito l’orchestrazione dei “Quadri” di Ravel non potrà mai togliersi dalle orecchie l’eco miracolosa dei suoni inventati da lui, per cui in “quel punto” attendi “quello strumento”, e solo quello.  Dopo le turbolenze della Prima Guerra Mondiale, con il concerto per la mano sinistra (composto per il pianista austriaco Paul Wittgenstein che aveva perso la destra in guerra) e con il concerto in sol (forse il suo momento più alto) si poteva dire che Ravel fosse il compositore di maggiore fama ed importanza (ed erano giorni in cui giravano per il mondo anche gli Strawinskij e gli Schoenberg!). Fu una grande disgrazia la malattia che lo colse dopo un incidente di taxi: non si seppe mai se il degrado intellettuale a cui il compositore andò incontro fosse una conseguenza del colpo ricevuto o se una malattia (come ad es. l’Alzheimer o la demenza frontotemporale) lo stesse distruggendo. L’infelice compositore cessò di comporre nel 1933, del tutto incapace di esprimersi musicalmente, anche se, forse,  poteva ancora percepire musica nella sua testa. Per salvarlo si tentarono tutte le vie, anche quelle chirurgiche, ma dopo un intervento privo di risultati Ravel morì il 28 dicembre 1937 a 62 anni.

    Però di questa sua triste fine non se n’è vista traccia nell’Auditorium del “Polo del ‘900”, dove con vivissimo piacere abbiamo ripassato i momenti più belli del suo pianismo apprestandoci a vivere un anno in cui, si spera, pioverà musica di Ravel da ogni parte.

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    Luisa Forlano
    Luisa Forlano
    Luisa Camilla Forlano è nata a Boscomarengo, in provincia di Alessandria, e vive a Torino. Oltre all’amore per la Musica coltiva assiduamente quello per la Storia, in particolare per l’antichità classica, ma anche per i secoli a noi più vicini, quelli della rinascita della ragione. Ed è stato nel desiderio di far rivivere alcuni momenti storici cruciali che si è affacciata al mondo della narrativa: nel 2007 col suo primo romanzo “Un punto fra due eternità”, un inquietante amore ai tempi del Re Sole; e poi con “Come spie degli dèi” (2010), che conserva un aggancio ideale col precedente in quanto mette in scena le vicende dei lontani discendenti del protagonista del primo romanzo. In entrambe le narrazioni la scrupolosa ricostruzione storica costituisce il fil rouge da cui si dipanano appassionanti vicende umane, fra loro differenti, ma fortemente radicate nella realtà storica del momento.

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