Ascolto “Vivere” mentre comincio a scrivere. È notte. Quella notte dopo il concerto, quando il rumore si spegne e tutto intorno sembra fermarsi. Il cuore ancora no, quello batte forte. Vivo. Come se avessi appena corso per chilometri. E invece ero lì, fermo, con la mia macchina fotografica stretta tra le mani. Occhi puntati sul palco. Mani pronte a catturare attimi. Emozioni. Quello che fa Vasco da più di quarant’anni: farci sentire vivi. Anche quando ci sentiamo mezzi morti.
Certe volte me lo chiedo davvero: che senso ha tutto questo?
Cosa spinge ancora un uomo di 73 anni a salire su un palco gigante, con 40mila persone davanti, luci sparate addosso, e cantare come se fosse la prima volta? Ma poi arrivo lì, metto piede in quello stadio e la risposta arriva da sola, come un’onda che ti travolge. Vasco è il senso. Vasco ha senso. E lo dà, a tutti.
Torino. Stadio Olimpico. La prima data del tour 2025. Sold out.
La prima cosa che noto non è nemmeno lo stadio, ma le tende fuori. Giornate prima, passavo lì per caso e c’erano già loro: ragazzi, coppie, genitori con figli, perfetti sconosciuti che diventavano amici. Un piccolo villaggio nato da una passione comune. Dormivano lì, mangiavano lì, ridevano lì. Tutto per un posto sotto palco. Tutto per “il Kom”. Sì, perché lui ora si fa chiamare così, “Il Kom”, e sulle maniche della sua giacca di pelle ci sono ricamate quelle tre lettere come fossero un sigillo.
E io lì, con il pass al collo, un privilegio che cerco sempre di onorare con discrezione.
Scatto, osservo, sento. E mentre la voce di Vasco inizia a scaldare lo stadio — “Benvenuti, Ben arrivati… Ben ritrovati!” — capisco che non è solo un concerto. È una specie di pellegrinaggio laico, un rito collettivo che unisce migliaia di cuori diversi in un’unica vibrazione.
Dentro lo stadio è un inferno di colori, di braccia alzate, di sorrisi, di pianti.
Fuori, un’altra storia. C’è chi balla sulle note che arrivano da dentro, chi beve birra seduto su un telo, chi canta a squarciagola. Ragazzi che hanno tatuato Vasco sulla pelle e padri che portano i figli per mano, come si fa con le cose importanti. È lì che ho pensato: “Vasco è come una gigantesca famiglia allargata. Disfunzionale, certo. Ma vera. Incredibilmente vera”.
Quando parte “Vita spericolata” si alza un coro talmente potente da coprire anche gli amplificatori.
E non riesco più a fotografare. Mi fermo. Guardo. Ascolto.
Mi emoziono. E mi viene da ridere, perché ogni volta penso che ormai dovrei esserci abituato. Invece no. Ogni concerto è un colpo al petto. Vasco ci mette tutto. Non risparmia niente. Ti guarda come se fossi lì solo tu, e ti dice le cose che avevi bisogno di sentire.
Sto riguardando gli scatti della serata, e come sempre arriva il momento in cui le immagini iniziano a parlare da sole. Come se la musica le facesse respirare.
C’è un’immagine che non riesco a togliermi dalla testa: lui, Vasco, in piedi sul palco con le braccia aperte mentre urla “Gli spari sopra… sono per voi!”
E sotto, un mare di mani tese verso di lui. Quasi a dirgli: “Siamo qui, ci siamo ancora”.
Forse è questo il segreto: nonostante il tempo che passa, le rughe, le battaglie personali, Vasco ci fa sentire ancora al centro di qualcosa. Di un’energia collettiva che non ha età.
E anche lui, a 73 anni, sembra ringiovanire ogni volta che il pubblico gli restituisce tutto.
Ogni brano è una tappa, un ricordo, un’epoca.
“Quante volte” ci ha fatto commuovere.
“C’è chi dice no” ha fatto alzare i pugni al cielo.
E poi il medley, quella follia orchestrata che ci ha fatto fare un giro dentro tutta la sua storia. Quando è partita “Una canzone per te” ho visto una ragazza abbracciare sua madre. Non si sono dette niente. Solo uno sguardo. Uno di quelli che non dimentichi.
Vasco è anche questo: storie dentro le storie.
E quando alla fine, nel buio ormai diventato luce calda, lui parte con “Albachiara”, lo stadio si accende di nuovo.
Un’ultima volta. Come un arrivederci che sa di eterno.
E io penso che anche se ne ho visti tanti di concerti, anche se ho viaggiato ovunque per fotografare musica e sudore e poesia… Vasco riesce sempre a farmi venire voglia di scrivere. Di raccontare. Di vivere.
Vi saluto con “Sally” nelle orecchie. La ascolto mentre il silenzio della città riprende il suo spazio. La notte è tornata a essere solo notte. Ma dentro di me qualcosa continua a vibrare.
Alla prossima emozione. Alla prossima foto. Al prossimo Vasco.