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lunedì, Novembre 10, 2025

    La testa è ancora leggera…


    Sono appena rientrato dalle vacanze. La testa ancora un po’ leggera, il ritmo lento che ti rimane addosso dopo giorni passati tra mare, risate e orizzonti aperti. Ma poi arrivi a casa, rimetti piede nella tua quotidianità, apri il pc e capisci che hai bisogno di riattaccarti a qualcosa che ti ricordi chi sei davvero. Nel mio caso, spesso è la musica. Così, tra le luci soffuse della stanza, faccio partire Sports dei *Viagra Boys. Il basso inizia a battere come un cuore impaziente, e all’improvviso non sono più davanti allo schermo: sono tornato indietro di un paio di mesi, 6 luglio, Flower Festival di Collegno.
    Collegno non è Torino, e forse è anche meglio così. Torino in questi ultimi anni sembra essersi un po’ dimenticata di cosa significhi ospitare grandi concerti. Non voglio fare polemiche sterili, non è quello il punto. È solo che manca quell’energia dirompente, quella sensazione di città viva che respira musica. E allora ben vengano i festival “fuori porta”, come questo, che diventano isole felici per chi, come me, ha bisogno di vivere la musica dal vivo quasi fosse ossigeno.
    E quella sera, sotto le stelle di Collegno, i Viagra Boys hanno trasformato un prato in un universo parallelo. Non sono la classica band che ti conquista con melodie facili o ritornelli da cantare a squarciagola. No. Loro sono sporchi, ironici, sopra le righe. Già il nome ti mette davanti a un bivio: o li prendi sul serio, o li liquidi come una provocazione da bar. Ma quando partono, capisci che non c’è nulla di superficiale in quello che fanno. È punk, è groove, è rabbia che si mescola alla risata. È vita.
    Il cantante, Sebastian Murphy, è l’anima scura e comica allo stesso tempo della band. Petto nudo, tatuaggi che sembrano raccontare mille storie incompiute, la faccia da uno che non ha paura di sporcarsi le mani. Il concerto inizia e lui, senza pensarci due volte, svuota una lattina di birra addosso a noi fotografi. Una doccia improvvisa, bagnata e gassata, che più che fastidio ti lascia un sorriso enorme stampato in faccia. Perché in quel gesto c’è già tutta la dichiarazione d’intenti: dimenticatevi il bon ton, qui si gioca un’altra partita.
    Per qualche secondo, lo ammetto, ho abbassato la macchina fotografica. Non per salvarla dalla birra – sarebbe stato inutile – ma perché volevo guardare. Volevo ricordare quell’attimo non solo attraverso l’obiettivo, ma con gli occhi. La folla che esplodeva in un urlo liberatorio, il palco che vibrava, e lui che rideva come un bambino dispettoso. E in mezzo a tutto questo, io, sospeso tra il dovere di catturare l’immagine e il desiderio di viverla fino in fondo.
    A metà concerto, mentre il sudore ormai colava a fiumi e l’aria sapeva di terra calpestata, Murphy attacca con Ain’t Nice. E lì ho capito ancora una volta perché li amo. Non cercano di piacere, non si mettono in posa. Ti sbattono in faccia una verità cruda, scomposta, che ti ricorda che la vita non è educata, non è lineare, non è “carina”. È fatta di caos. E loro il caos lo trasformano in arte.
    Guardavo il pubblico e mi accorgevo che nessuno era indifferente. C’era chi saltava come un forsennato, chi rideva tra le lacrime, chi stava fermo ma con lo sguardo fisso, catturato da qualcosa che forse non capiva del tutto ma che lo stava comunque travolgendo. È questo il potere dei Viagra Boys: non sei tu a scegliere se lasciarti andare, sono loro che ti prendono e ti trascinano dentro.
    E mentre scattavo, mi sono reso conto di quanto la fotografia e la musica abbiano in comune. Non è la perfezione che ti resta dentro. Non è lo scatto nitido o la nota precisa. Sono i dettagli storti, le immagini mosse, le voci che grattano. È lì che c’è la verità. E i miei scatti, bagnati di birra e impregnati di quell’energia, avevano proprio quell’imperfezione viva che ti ricorda di essere parte di qualcosa.
    Verso la fine del concerto, con i piedi che affondavano nella polvere e la notte ormai calata piena, arriva Shrimp Shack. Surreale, ipnotica, come una corsa in un sogno che non vuoi finire. Chiudevano con un sorriso storto, con la voglia di lasciarti addosso la sensazione che non era solo musica: era un’esperienza. Io scattavo, ridevo, e dentro pensavo che sì, il Flower Festival quella sera era davvero il centro del mondo.
    Ora, tornato a casa, con le vacanze finite e la routine che ricomincia a bussare alla porta, torno a quei ricordi. La musica ha questa forza incredibile: ti basta premere play e sei di nuovo lì, tra i tatuaggi, le birre, il pubblico che urla. Così, davanti al pc, faccio partire Research Chemicals. Le note riempiono la stanza, e in un attimo mi risucchiano di nuovo dentro a quella notte di luglio. È come se mi salutassero da lontano, ricordandomi che ci rivedremo presto, davanti a un altro palco, con la macchina fotografica pronta e il cuore spalancato.

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