“Scissione” e il confine invisibile tra lavoro e vita privata

Da sempre il posto di lavoro è stato raccontato come un teatro di tensioni universali: la noia, la competizione, la ricerca di senso. Negli Anni ‘90 il cinema aveva già intuito qualcosa. “Office Space” del 1999 racconta con leggerezza disarmante l’assurdità quotidiana del lavoro d’ufficio, nello stesso anno “Fight Club” mostra un impiegato anonimo prigioniero della sua routine e delle regole aziendali che trasformava la frustrazione da impegno senza senso in ribellione estrema e allo stesso modo “American Beauty” ritraeva un uomo che stanco del suo lavoro sterile cercava una nuova autenticità. In questi casi, il messaggio era chiaro: il lavoro non era il luogo della realizzazione, ma della perdita di sé. Con la serialità televisiva le cose cambiarono. “The Office”, prima britannico e poi americano, mise al centro dell’attenzione non tanto le mansioni, ma le persone. L’ufficio diventa un luogo tragicomico e non più soltanto un incubo; un microcosmo umano fatto di imbarazzi, capi inadeguati e di colleghi che imparano a sopportarsi e a volersi bene. Se i film degli Anni ‘90 raccontavano l’impulso alla fuga, le sitcom dei primi anni 2000 rappresentavano un adattamento, il lavoro era ancora noioso e spesso frustrante, ma diventava sopportabile grazie alle relazioni che ci si costruisce intorno. Oggi la narrazione è cambiata di nuovo con serie come “Succession” che ci racconta i giochi di potere di una famiglia miliardaria che manipola il mondo a proprio vantaggio o “Black Mirror” che mostra invece il lato oscuro della tecnologia delle imprese, dove il lavoro, la vita privata e la stessa identità vengono manipolati e segmentati in modi inquietanti. La serie televisiva firmata Apple TV + “Severance”, da noi in Italia chiamata “Scissione”, prende questo concetto e lo porta all’estremo: e se potessimo davvero dividere in due la nostra coscienza, separando il “noi al lavoro” dal “noi nella vita privata”? Nella serie thriller i protagonisti, dipendenti dell’azienda Lumon, subiscono una procedura chirurgica che separa la loro coscienza in “interni” che esistono soltanto dentro le mura dell’azienda, senza memoria di ciò che c’è oltre, ed “esterni” che vivono la propria vita fuori dall’ufficio, senza mai percepire le ore trascorse a lavoro, inconsapevoli delle mansioni svolte. Il risultato? Un equilibrio lavoro-vita portato all’estremo: libertà totale da un lato e prigionia assoluta dall’altro. Ogni dipendente è due persone distinte, ma nessuna delle due è davvero libera. Secondo Dan Erickson, il creatore di “Scissione”, la serie nasce dall’idea che il lavoro aziendale spesso ci spinge a ridurre la nostra umanità, lasciando fuori le parti di noi che non servono all’impresa e sopprimendo quindi le nostre sfaccettature. “Scissione” rende visibile questa frattura, trasformando la divisione tra “interno” ed “esterno” in una metafora per la lotta quotidiana tra vita privata e lavoro. É un’idea che sembra fantascientifica, ma che ci parla molto da vicino, perché se i personaggi della serie vivono una separazione chirurgica, noi a nostro modo la sperimentiamo in forma più sottile quotidianamente, cambiamo modi espressivi tra le e-mail e i messaggi privati, passiamo da una chiamata di lavoro con un tono professionale ad una chat di famiglia come se fossero dei mondi paralleli che si escludono reciprocamente. Se la serie porta all’estremo la separazione che già viviamo tra linguaggi, ruoli e comportamenti, allora viene spontaneo chiedersi: fino a che punto siamo disposti a rinunciare a una parte di noi per preservare l’altra, pur di sentirci realizzati?