Il “S. Giorgio”, lasciatosi Livorno a poppa via, prese a navigare nel Mediterraneo verso lo stretto di Gibilterra, la porta che immette nel vasto oceano Atlantico.
La prora della nave, guai a chiamarla prua, tagliava allegramente i flutti. I motori, con il loro rumoroso ritmo, spingevano lo scafo verso le “ Ammeriche”. Al suo interno l’equipaggio era intento alle sue, apparentemente, caotiche attività. In realtà, quell’insieme di acciaio che forma la nave è un organismo vivo perfettamente organizzato. Ogni membro dell’equipaggio svolge precise mansioni in base alla sua specializzazione: marinai di coperta, marò, motoristi, elettricisti, radaristi, addetti alle armi, cuochi e tanti altri. Su tutti regna il “comandante in prima”. Una specie di monarca.
La nave è la casa dei marinai. Essi appartengono a quella ristretta cerchia di persone che, pur essendo sempre in movimento, hanno la casa sempre con se. Come i rom e i circensi.
Dopo sei giorni di mare ecco profilarsi all’orizzonte l’arcipelago delle Azzorre, situate in pieno oceano. È la consueta tappa tecnica, nel porto della splendida Punta Delgada, prima del grande balzo verso gli USA, verso la “Grande Mela”, verso la città che incarna la grande miscellanea del genere umano.
Si riprese il mare. Il cacciatorpediniere S. Giorgio ondeggiava dolcemente cullando i sogni degli allievi e dei marinai più giovani, impazienti di scoprire il Nuovo Mondo.
Dopo qualche giorno, in una mattina brumosa, all’orizzonte si stagliò la sagoma di una grande nave che navigava veloce. Si avvicinò, ora si vedeva bene: i caratteristici fumaioli a traliccio chiarirono che si trattava della Raffaello, il transatlantico che, assieme alla gemella Michelangelo, faceva sevizio regolare tra l’Italia e New York.
Alcuni colpi di sirena furono il saluto che le due navi si scambiarono. La Raffaello doppiò il S. Giorgio e sparì nella nebbia.
Le sorprese non erano finite. Un motore della motrice di prora faceva dei capricci che non compromettevano il funzionamento. Capo Ruppi disse: “Però, appena arriviamo dobbiamo provvedere alla riparazione. Non possiamo rischiare. È una di quelle maledette cannole”.
Al settimo giorno, a metà mattina, all’orizzonte apparve la costa degli Stati Uniti. La baia di New York si aprì davanti a noi. Passammo sotto il ponte sospeso “Da Verazzano”, la porta della città.
A dritta, guai a dire destra, intanto sfilava il simbolo degli USA: la statua della Libertà.
Questa era la prima immagine che gli immigrati vedevano dell’America, come la chiamavano, e che suscitava in loro speranze per il futuro e rimpianti per le famiglie lasciate in Italia.
Il S. Giorgio attraccò al Pier 50, il molo della compagnia di navigazione Italia sul fiume Hudson.
Manhattan era davanti a no, il simbolo di una società dinamica continuamente in movimento e animata da un fermento incessante.
Appena attraccati, e spenti i motori, piombarono in motrice di prora capo Ruppi ed il direttore di macchina, il maggiore Bianchi. Chiamarono Pettenati e dissero:” Prima di uscire predisponete per la riparazione.” Bianchi aggiunse:” Anche se è fuori orario potrete uscire lo stesso, avviso io l’ufficiale di sevizio.”
Ci si dette da fare. Bisognava smontare completamente un cilindro che conteneva un pistone di 30 cm di diametro, pesante quattrocentocinquanta chili: una faticaccia che terminò dopo sei ore di lavoro.
Finalmente si poté andare in libera uscita. Dante disse: “Andiamo subito a Times Square, lo sogno da una vita”.
Ci si incamminò in gruppo attraverso il quartiere portoricano, un luogo vivace ma problematico, che stava e sta tra il porto e le grandi arterie. Nonostante il desiderio di Dante decisero che la prima tappa sarebbe stata la Fifth Avenue: la mitica 5° strada. Il gruppo camminava spedito e in allegria.
Qualche giorno prima, durante una conferenza tenuta per illustrare la città, li avevano avvisati: mai girare la città da soli. È pericoloso, non si sa mai. Francesco, Dante, Pettenati, Pedicini e altri decisero che avrebbero fatto squadra durante la sosta.
Restarono frastornati dalla giungla di grattacieli che svettavano audaci verso l’alto. Uno addossato all’altro. Sembrava una foresta amazzonica di acciaio. Una sfilza interminabile di negozi lussuosi e abbaglianti ammiccavano verso i passanti offrendo cose che quasi nessun mortale normale poteva permettersi. Il lusso e la frivolezza aggredivano e si offrivano con ostentazione. Subito notarono che in questo mondo edonistico passeggiavano, completamente assenti, uomini e donne avvolti in abiti e coperte laceri e sporchi. Lo specchio di una società impietosa che espelle chi non è all’altezza. Persone che di notte si accucciavano contro le serrande abbassate e vicino alle griglie del sottosuolo sperando di riuscire a catturare un po’ di calore.
Times Square li accolse con le sue enormi e luminosissime insegne. Anche li c’era un frenetico flusso di individui di ogni tipo di etnia che faceva e fa di New York un crogiolo che è lo specchio della possibile convivenza tra persone di diversa provenienza ed estrazione. Si discusse e si confrontò quella realtà con le città del Bel Paese. Confronto improponibile.
Ci fu poi il rito irrinunciabile del Radio City Music Hall, uno spettacolo di balli, canzoni e musica travolgente. Si resero conto che New York merita appieno il nomignolo di Grande Mela: riassumeva il meglio e il peggio del mondo.
Francesco aveva da compiere un piccolo dovere. Una donna, sua vicina di casa al paese, gli disse:” Quando sei a New York vai a trovare mio fratello Antonio, vive nel Bronx, lo farai felice.”
Andare nel Bronx? Era preoccupato per la cattiva fama del luogo. Sarebbe riuscito ad arrivarci?
Con sorpresa si accorse che girare la città era facilissimo grazie all’estesa rete della metropolitana. Cose sconosciute in Italia. Antonio Coda lo accolse a braccia aperte. Francesco cenò con loro. Per Antonio incontrare un compaesano era un ritorno a casa. Francesco dovette raccontargli tutto del paese natio dove non era più tornato.
Il giorno dopo scoprirono quel gran polmone verde che è Central Park. Salirono sul grattacielo più alto “ l’Empire State Building”. Sembrava di stare tra le nuvole. Da quella terrazza posta così in alto la città apparve in tutta la sua esagerata estensione. Quell’enorme città, costruita dagli uomini, faceva apparire gli esseri umani che la abitavano dei minuscoli insetti. A Greenwich Village vennero trasportati in un mondo fatto di musica e arte, un mondo straordinario e vivace. A Brooklin sembrò loro di essere in una Italia colorita con tutti i suoi riti e tradizioni. Così come in Chinatown.
Sì, questa città poteva davvero essere considerata il centro del mondo: New York è una mamma prodiga ma anche impietosa.
I giorni passarono veloci. Era l’ora di riprendere il mare.
La foce del S. Lorenzo, da dove sarebbero arrivati a Chicago, ci aspettava. Un altro mondo da scoprire.
Da Livorno a Chicago
Storie di uomini, navi e mare 2° parte: La Grande Mela
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