Sono capitato per caso fra i banchi di frutta e verdura di un mercato rionale della periferia cittadina e subito mi è parso di essermi perduto tra gente, lingue, dialetti sconosciuti, finché con gradita sorpresa ho notato due persone anziane che a voce bassa, quasi intimorite dalla vivacità e dal frastuono che le circondavano, approfittando del casuale incontro e accompagnandosi con un quasi impercettibile movimento delle mani si stavano raccontando nella nostra lingua. In piemontese. Trascurando la buona educazione, mi sono fermato ad ascoltare notando come, esaurita la comune meraviglia per gli insoliti capricci del tempo, si confidassero, non prive di angoscia, le malattie vere o presunte oppure i tanti momenti di malinconia e solitudine in attesa probabilmente dell’arrivo, ognuna, del proprio inverno.
Sistemata nella borsa di plastica la poca spesa, con passo improvvisamente incerto mi avvio verso casa pensando a quanto quella storia domani potrà essere la mia. Allora decido di fermarmi e tolgo dalla tasca l’ormai inseparabile cellulare. Da qualche tempo in una sorta di piacevole moviola, con cadenza tanto gradita quanto sempre maggiormente ravvicinata vi compaiono istantanee di Caselle, squarci di un paese come era prima di consegnarsi a nuove inevitabili esigenze abitative e territoriali. Un paese capace, a quel tempo, di lasciarsi percorrere e accarezzare dagli anni sognanti della nostra gioventù. Spesso in bianco e nero, le immagini, accompagnate da didascalie e commenti ricchi di nostalgia, su quel microscopico schermo sembrano disegnate; sono sufficienti tuttavia a strappare un sospiro o a riscoprire qualche volto amico smarrito nel tempo. Gradite e prepotenti, nel mezzo di questo strano mese di luglio fino a ieri atteso e temuto per il proverbiale gran caldo e le noiosissime mosche, fanno inevitabilmente pensare all’altro ieri. A quando chi, nella imminenza delle vacanze estive, in tempo e puntigliosamente, organizzava viaggio e famiglia per raggiungere qualche lontana località marina della nostra riviera ligure, oppure si apprestava a ritornare nella propria regione d’origine per ritrovare i genitori in ansiosa attesa o gli amici rimasti al paese, non ancora sedotti dalle sirene del lavoro sicuro rintracciato agevolmente nell’allora immaginaria Alta Italia. Per questi figli del Sud ora rinfrancati e finalmente abbandonati dallo spettro di una sicura povertà era l’occasione, attesa un anno, per seguire, come accadeva in alcune zone della Campania durante le scintillanti, esagerate feste patronali , l’immancabile processione come atto di devozione al santo locale spesso addobbato di poco religiose banconote anche straniere, oppure di sedere in prima fila intorno al palco, appositamente allestito, per applaudire la costosa esibizione del cantante più famoso del momento. Appuntamento a cui era impossibile far mancare tanto la presenza quanto il proprio contributo economico.
Riprendo il cammino verso casa. Il veloce monopattino che pericolosamente si fa largo sul marciapiede suscitando tra gli sbigottiti passanti giusta apprensione ed irripetibili imprecazioni, mi impedisce di continuare ad assaporare il profumo terapeutico del ricordo. Lo stesso di cui, giunti ad una certa stagione della vita, è necessario continuare ad essere soltanto gelosi custodi evitando accuratamente di diventarne prigionieri.
Troppo spesso ora che il tempo nella nostra mente ne ha addolcito ulteriormente il sapore, sospirando, sventoliamo come segno di irripetibile felicità irrimediabilmente perduta, una fortunata condizione sociale foriera di innovativo benessere originato dall’abbandono della vecchia povertà, retaggio di una guerra persa, e dalla contemporanea certezza di una occupazione finalmente stabile anche se non sempre sistemata sotto casa.
Da tempo ormai ai nostri figli, ai nostri nipoti, stiamo consegnando un mondo difficile ricco di insidie e povero di certezze a cominciare da una nuova e rivoluzionaria catena degli affetti familiari per precipitare in una inspiegabile crisi di valori politici, tacendo delle continue minacce a quella pace che molti anni or sono ottenemmo in regalo e di cui oggi dobbiamo comprendere maggiormente valore e significato.
Perciò continuare a fare confronti con il passato, con i trascorsi, luccicanti vent’anni, oggi serve soltanto a smarrire serenità e speranza, compagne indispensabili dei nostri nuovi giorni autunnali.
Domani tornerò a quel mercato rionale tra vivacità e frastuono con la speranza di rivedere le due persone anziane ancora intente a raccontarsi. Mi farò coraggio, mi avvicinerò e nella lingua piemontese che orgogliosamente ho ricevuto in prestito cercherò di ricordare, lontano per un attimo da solitudine e malinconia, che come per il paradiso, anche il nostro inverno può attendere. Dopotutto è bene ricordare che nella ricca vetrina dell’universo noi siamo un prodotto pregiato privo della data di scadenza.
Serenità senza scadenza
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