Di recente, parlando del fenomeno-Satie, ho accennato al “Gruppo dei Sei” operante in Francia in ambito musicale a partire dagli Anni ’20 del Novecento. Nel primo dopoguerra, subito dopo la scomparsa di Debussy, sei compositori, sotto l’egida dello scrittore Jean Cocteau, si unirono in un “gruppo” allo scopo di reagire sia all’impressionismo imperante che al diffuso wagnerismo e alle sue emanazioni incluse le coeve sperimentazioni dodecafoniche e seriali.
Il caso ha voluto che fossero tutti, salvo il meno noto Louis Durey, dei musicisti di alto livello. Provenienti da differenti regioni della Francia (solo Honegger era svizzero) e da contesti musicali diversi, si prefissero la rivalutazione, forse in modo un po’ sciovinistico, della scuola nazionale francese. Miravano a un linguaggio semplificato che accogliesse anche spunti dalla musica di strada o dal jazz, uno stile chiaro, libero, ironico, dissacratore, comprensibile a tutti, che propriamente si sarebbe potuto definire “l’eredità di Eric Satie”.
Chi erano questi pionieri del futuro? Innanzi tutto, l’eclettica Germaine Tailleferre (1892-1983), unica donna del gruppo, che spaziò dalle composizioni per solo piano alla musica da camera e sinfonica, e di cui si sta di recente riscoprendo la produzione; Georges Auric (1899-1983), dotato di notevoli capacità d’approccio nei confronti dell’ascoltatore, molto dedito alle chansons e alla musica da film; il già citato Louis Durey (1888-1979), tradizionalista, e meno portato a scrivere per teatro o balletto (i generi particolarmente coltivati dai Sei); Arthur Honegger (1892-1955), forse il meno “francese” fra loro, ammiratore dello stile mahleriano e fautore di un non sgradevole gigantismo orchestrale; Darius Milhaud (1892-1974), che avendo scoperto i suoni e i ritmi sudamericani durante un suo soggiorno in Brasile ne fece la stuzzicante base del suo stile compositivo; e per ultimo (lo cito per ultimo perché è quello per cui batte il mio cuore) il parigino Francis Poulenc (1899-1963).
Nato in una facoltosa famiglia borghese, suo padre era medico ed industriale e sua madre una sensibile pianista. E fu proprio dalla madre che ricevette le prime lezioni di pianoforte, per poi perfezionarsi col maestro Ricardo Viñes, un incontro fondamentale della sua vita. Persi presto entrambi i genitori, divenne “a viva forza” maggiorenne e decise di iscriversi al Conservatorio, ma, per il veto di una certa élite che lo riteneva troppo anticonformista filo-Satie, non vi entrò mai.
In compenso iniziò a frequentare gli intellettuali, scrittori e poeti di Montparnasse, quali Aragon, Éluard, Bréton, Apollinaire, un ambiente estremamente stimolante e saturo di futuro, mozzato però dalla tremenda parentesi di un anno (il 1918) passato sul fronte di guerra. Scriveva tanto, scriveva di continuo, tra cui la “sonata per due clarinetti” elogiata da Strawinsky. Ottenne così il diritto di far parte del “Gruppo dei Sei” fondato da suoi amici, il che gli diede la spinta necessaria per conquistare il primo grande successo col balletto “Les Biches” commissionatogli da Djagilev e dato a Montecarlo. Un vero trionfo.
Da quel momento la vita di Poulenc fu solo un susseguirsi di successi. Mirabolanti sono il “Concert champêtre” per clavicembalo (1928) scritto per la leggendaria Wanda Landowska, il “Concerto per due pianoforti in re minore” per la Biennale di Venezia (1932), il “Sestetto” del 1935 e il “Concerto per organo orchestra e timpani” del 1938. Con fantasia ininterrotta si misurò in tutti i generi musicali, dai massimi ai minimi, fino alle semplici deliziose canzoni sui testi di Paul Éluard. Gli anni della Seconda Guerra Mondiale, coi tedeschi a Parigi, furono durissimi, ma non sterili dal punto di vista artistico in quanto non smise mai di comporre, nell’attesa del meraviglioso rifiorire del dopoguerra, quando la sua fama si sarebbe diffusa a livello mondiale. Il “Concerto per pianoforte” del ’49, la sonata per flauto scritta per Jean-Pierre Rampal, quella per violino alla memoria di Garcia Lorca, sono tutte opere che non mancano di dilettarci e stupire.
Quand’era ancora giovane, la morte prematura dei genitori, poi di alcuni cari amici e dell’unica donna che avrebbe voluto sposare, lo portò a vivere anni terribili in cui trovò conforto rivolgendosi alla musica sacra, in cui scrisse cose egregie. Ritrovò così il suo cattolicesimo di origine, e in questo divenne persino eccessivo. Però tale virata ci regalò quello che in genere è considerato il suo capolavoro: l’opera in tre atti “I dialoghi delle Carmelitane” (dal dramma di Bernanos) data alla Scala nel 1957, composizione raffinata e intensa che ad ogni riascolto regala ulteriori motivi di meraviglia per quelle sue frasi liriche, per quel suo ricco e mosso substrato cantante, per la pregnanza dei temi espressi in orchestra. Il finale col “Salve Regina” è uno dei più grandi raggiungimenti della musica del XX secolo.
Poulenc morì nel gennaio del ’63 per un infarto che lo colse nella sua casa di Parigi. Ricordo ancora il momento in cui sentii l’annuncio alla radio. Capii che era morto un compositore straordinario, di cui non mi era mai capitato di sentire qualcosa che non mi piacesse.
Francis Poulenc, il primo del “Gruppo dei Sei”
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