È una piccola testimonianza dell’arte romanica canavesana, un’opera che Aldo Moretto, tra i primi a darle dignità, commentando con queste parole: “vicina a noi, moderna nella sua antichità. È che per noi conta un’arte che rimanga solidale con la vita, che sia in grado di dirci qualcosa di umano, che ci impressioni subito, anche se i mezzi tecnici che adopera sono rudimentali e rozzi”. Così scriveva l’indimenticabile studioso nel suo libro: Indagine aperta sugli affreschi del Canavese. Dal romanico al rinascimento (1973).
L’attenzione era posta al complesso di San Ponso nell’omonimo comune e che conserva un battistero realizzato tra la fine del X secolo e l’inizio del successivo, eretto per essere collegato a una chiesa romanica, oggi non più esistente. Nel sito vi è invece un edificio di culto di epoca barocca, con funzione parrocchiale.
Le rilevanze architettoniche hanno posto in luce l’esistenza, nell’area attigua, di un cimitero del I-II secolo d.C.: da questo complesso proviene materiale lapidario riferibile a individui romani di ambo i sessi.
Non è da escludere che l’edificio presente nel luogo in cui poi fu costruita la pieve, fosse un tempio dedicato a qualche divinità celtico-romana.
Prospezioni archeologiche effettuate negli Anni Settanta del secolo scorso, hanno però posto in evidenza, solo la presenza di un battistero più antico (V secolo) nell’area in cui venne poi innalzato quello attualmente ancora visibile.
Anche agli occhi dell’osservatore inesperto, il complesso di San Ponso risulta una struttura originalissima, soprattutto in ragione del modo con cui si è eseguito l’assemblaggio tra gli edifici: colpisce in particolare la presenza del campanile collocato al centro del battistero, che di fatto diventa quasi una corona finalizzata a contraffortarlo.
Il risultato è un’ibridazione assolutamente eterogenea, che si pone come una soluzione compositiva attuata senza un apparente rigore costruttivo.
Il campanile, posto sull’alta cupola, risale alla fine del XVI secolo e naturalmente costituisce una profonda alterazione delle linee romaniche del battistero a pianta ottagonale, ma con lati non uniformi, sui quali si innestano le otto absidi, scandite da un’alternanza tra struttura semicircolare e rettangolare. Differenza strutturale che non è chiaro se dovuta a una realizzazione grossolana, o se determinata da scelte di carattere compositivo e correlate a motivazioni di ordine simbolico. Praticamente assenti i motivi decorativi se si escludono gli archetti situati su lesene
Risulta forse eccessivo il notevole spessore delle mura, costituite da pietre di diversa tipologia, in alcuni casi dispose a spina di pesce, che sorreggono il tiburio, sul quale si appoggia la cupola coperta da lose di pietra.
La porta del battistero è sormontata da un’originale architrave, caratterizzata da un’incisione che propone una figura femminile alquanto schematica; il lapicida ha infatti scelto una rappresentazione alquanto schematica: una figura con volto essenziale e rozze braccia e gambe, che tipologicamente potrebbe ricordare alcune stele dell’Età del Rame.
L’iconografia propone un corpo disteso con un’estrema sintesi delle mani: nella sinistra è racchiuso un oggetto di difficile interpretazione, è possibile che si tratti una borsa.
La pietra, quasi certamente una lastra tombale, venne comunque realizzata in epoca storica recuperando del materiale romano, come sembrerebbe dall’iscrizione presente sulla superficie:
“SECVUND-AEBV”.
Non è comunque chiaro se quella pietra che oggi funge da architrave fu utilizzata come lastra tombale o come stele funeraria, mentre appare evidente che apparteneva a una donna chiamata Secundina Aebutia.
Poiché nell’esecuzione del battistero furono anche utilizzati materiali di spoglio romani, non deve quindi stupire il riutilizzo della pietra tombale con funzione strutturale all’interno del nuovo edificio. Il recupero forse fu effettuato per motivi pratici, al fine cioè di sfruttare il materiale litico da adattare senza difficoltà, riducendo l’impegno dei costruttori. Ma vi è anche la possibilità che quel riutilizzo fosse stato determinato dalla consapevolezza di trovarsi al cospetto di un’opera che non meritava di andare perduta. Indicative le parole di Aldo Moretto: “Con rozzi e incerti contorni, il semplice lapicida ha costruito il volto, con due tratti più fondi per il lungo collo: e poi sempre, adoperando schemi convenzionali e le possibilità espressive (molto povere) della pressione più o meno alta da esercitare nello scavo della varie linee, ha ottenuto effetti d’ombra e di rudimentale rilievo”.