Good morning Cose Nostre!
Il titolo del pezzo non si riferisce al lavoro notturno di certe signorine, ma alle vacanze in moto che per fortuna continuano. Dopo mesi di temporali, decidiamo di fuggire per una settimana: destinazione Provenza. Il periodo scelto dovrebbe essere tranquillo perché i tristi baracchini italiani sono ancora tutti al lavoro e i bambini rompi maroni sono ancora ai centri estivi. Il clima dovrebbe essere mite, senza il caldo opprimente.
Regola fondamentale per il viaggio, evitare autostrade e tangenziali ma percorrere stradine interne poco conosciute, senza traffico, mettendoci anche il doppio del tempo gustandosi i paesaggi.
Abbiamo tutto il tempo che vogliamo, e ce la prendiamo comoda: partiamo lunedì alle nove in tutta calma, non prima di aver lasciato qualche centinaio di euro ai gatti, che si comprino cosa vogliono.
Passiamo a prendere una coppia di nostri amici su – orrore – BMW GS, e via: di nuovo… on the road.
Il primo tratto del viaggio procede noioso su strade piene di camion e furgoni: arrivati a Claviere iniziano quei mitici stradoni larghi di alta montagna, che noi non abbiamo; tra un curvone e l’altro, un pieno e l’altro (il serbatoio della mia Harley contiene tre litri, quello del GS è un boiler e con un pieno potrebbero arrivare in Canada) eccoci arrivati alla parte più temuta dei viaggi in Francia: mangiare.
Il cibo è sempre stato una schifezza assoluta. I Francesi o sono incapaci di cucinare, o pensano che il popolo dei motociclisti sia composto da cinghiali sempre sudati e ubriachi che mangiano di tutto, senza il minimo gusto: in pratica, dei facoceri che si ingozzano con l’imbuto. Come quella tortura che infliggono alle povere oche, per produrre quell’obbrobrio chiamato paté francese. Da vietare per legge.
E questa specie di “ristorante” dalle sedie e tavoli di plastica unta non si smentisce: o ci sono le orrende insalatone (niente a che vedere con le nostre: qui si tratta di enormi foglie verdi con cubetti di pancetta fritta, acciughe, uova bollite, olive, patate fritte a quintali, olio dei TIR, capperi e senape a palate), oppure porcherie fritte come le crocchette di pollo o di pesce insapore, pescato e surgelato direttamente dalle fognature di Marsiglia. Non hanno la scelta che abbiamo noi, come ad esempio gli antipasti o i diversi tipi di secondi. Non hanno una cucina specifica, nessuna specialità particolare.
E poi tonnellate di formaggio di capra che non sopporto. Però ho notato che sono finalmente sparite le bottigliette di vinaigrette sui tavoli, ovvero quel sinistro condimento già pronto con olio, limone e senape: probabilmente perché ci sono state centinaia di morti, sono state ritirate dai ristoranti.
Imperdibile, misteriosa e molto bella, l’Abbazia di Senanque, che ho incluso nel nostro itinerario: peccato per l’afflusso esagerato di mandrie di turisti. Mi domando quale caos ci possa essere qui nel periodo di fioritura della lavanda. Curioso il cartello all’ingresso, che consiglia un abbigliamento decoroso per il rispetto del luogo: ma tutto il mondo è paese, anche qui regna sovrana la maleducazione: infatti sono molte le turiste vestite da spogliarelliste. Spero che i monaci non vengano indotti in tentazione…
La seconda tappa è bellissima sotto l’aspetto paesaggistico: ci inoltriamo nella Provenza del sud, in direzione Les Baux. Attraversiamo pinete, macchia mediterranea e montagne selvagge, dove per ore non incontriamo nessuno, solo qualche giovane motociclista tedesco di circa centodieci anni.
Per la notte ci viene messa a disposizione una casetta nel centro del paese: avendo prenotato e pagato in anticipo (cosa per me orrenda, che annulla l’avventura del viaggio), non vedremo mai i proprietari, perché le chiavi sono collocate in una cassettina di sicurezza con combinazione, all’esterno dell’edificio. Una cosa è certa: se io avessi una casetta così carina, per niente al mondo la metterei a disposizione di perfetti sconosciuti… ma qui entra in ballo la mia eterna diffidenza da piemontese. Meno male.
Siamo stanchi perché questa è stata la tappa più lunga di duecentocinquanta km, duemila percepiti se si guida una Harley. Decidiamo di andare a piedi, per cercare un… ristorante. Quello che troviamo sarà la parte più triste della vacanza: una specie di pizzeria sporca e alla buona dove ci si serve da soli e ci si prepara la tavola. O meglio, si mette un tovagliolo sul tavolino che ha visto il detersivo l’ultima volta durante la Rivoluzione Francese. È l’unica scelta, in quanto i pochi “ristoranti” sono troppo lontani da raggiungere a piedi. E così piango in silenzio mentre cerco di mangiare con le mani una schifezza che chiamano pizza, sottilissima ma dal diametro di due metri che deborda sul tavolo raccogliendo tutti i virus possibili, con degli champignon trovati nei boschi direttamente da Napoleone in persona.
La terza tappa ci regala una perla: nei dintorni di Valensole e dei suoi sterminati campi di lavanda non ancora infettati dal turismo, un piccolo hotel, dove una gentile signora ci prepara una normale e buona cena all’italiana terminata con una macedonia e un amaro della casa offerto, anche se non abbiamo prenotato: siamo solo noi in questa antica sala da pranzo, intorno a un tavolo rotondo con tanto di candele, pianoforte e gattone in grembo. Un momento raro e magico di questa vacanza.
L’ultima tappa mi serve da lezione: mai ritornare in un posto, perché non è più come prima e può causare una delusione. Ripassiamo da Barcelonnette, sapendo che ci sono ottime creperie: finire la vacanza con una galette bretonne accompagnata da una tazza di sidro sarebbe il massimo.
Sarebbe. Appunto. Ci sono tre creperie. Tutte chiuse. Ed eccoci così di nuovo in un “ristorante” davanti al solito triste menù: allora, insalatona con le acciughe o con le crocchette di merluzzo?
Bear
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