Il Banco di Beneficenza

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“Sì sì, lo facciamo anche quest’anno”. Così affermava, nei mesi estivi dei primi Anni Sessanta il Cavalier Pietro Mondino Presidente della locale Conferenza di San Vincenzo, informando il giovane prevosto arrivato a sostituire nella Parrocchia di Santa Maria il vecchio, polveroso Canonico Rossetti. Poi bastava un cenno, e un nutrito gruppo di giovani e meno giovani, tanto i freschi reduci dalla innovativa e costosa abbronzatura marina quanto i pallidi fruitori del sole gratuito della domestica Stura, si ritrovava quasi subito a parlare del settembre alle porte e, soprattutto, del Banco di Beneficenza il cui allestimento nel salone del teatro dell’oratorio costituiva un severo quanto gradito impegno e rappresentava una concreta opportunità di aiuto e solidarietà da destinare alle persone anziane del locale Ospedale Baulino. Rappresentava, insieme alle giostre e al ballo a palchetto, che si contendevano lo spazio sulla Piazza Boschiassi, un affettuoso e atteso simbolo della Festa di Caselle che, diversamente da oggi, si consumava in soli tre giorni culminanti il martedì sera nella meraviglia dei fuochi d’artificio sul Prato della Fiera, dove la magica e indiscussa arte della Premiata Ditta Panzera procurava gli estasiati assembramenti delle persone adulte e garantiva le bocche spalancate dei bambini. Loro, i bambini, in quel salone poco prima si erano fermati con i genitori per sincerarsi che la bicicletta in palio come premio principale di quella pesca benefica fosse ancora al suo posto, lassù al centro del piano più alto, magari circondata da scompaginati servizi di bicchieri alla loro terza riproposizione o da qualche sconosciuto gioco di società, il tutto rigorosamente corredato da un numero progressivo. Quel numero incollato all’oggetto rappresentava la sintesi della speranza o della delusione di chi, sapendo comunque di fare del bene, tentava la fortuna. Costituiva allo stesso tempo la testimonianza dell’impegno e della fatica necessari ad individuare, collocare e poi, appunto, numerare con obbligatoria praticità e precisione migliaia di oggetti di diversa natura sistemati sui molti piani, equidistanti in altezza, di quella temporanea tribuna in legno allestita dal noto capomastro Troglia, imprenditore locale, sempre affettuosamente disponibile a cui, per la verità, non facevano difetto nè l’abilità professionale, nè una cordiale e moderata fisica rotondità. Nelle prime sere di settembre chi di noi fosse stato in possesso di una scrittura almeno comprensibile era invitato ad accomodarsi al lungo tavolo ai piedi del banco, munirsi di penna e quaderno a righe su cui riportare fedelmente l’intero annuncio delle signore che, incollato il biglietto all’oggetto sistemato sul piano, con vigore declamavano: “ 117: servizio tazze, 1° piano sinistra”. La precisazione era indispensabile in quanto sullo stesso piano esisteva anche un settore centrale e uno di destra. La necessità di riscaldare periodicamente il pentolino della colla preparata con acqua e farina bianca, era l’unica occasione per interrompere l’insolita catena produttiva . Poi l’innovativa comparsa del rotolo di scotch sconvolse e annullò la vecchia abitudine del pentolino e il momento di riposo ad esso collegato, mortificando negli strenui volontari il desiderio spesso inconfessato di una meritata e ancora possibile sigaretta. A ogni biglietto, assegnato all’oggetto esposto, corrispondeva una seconda uguale metà che mani di signore veloci ed esperte facevano scorrere lungo le dita a formare un piccolo rotolo che poi fermavano al centro con adeguati anellini metallici o più semplicemente con pasta a forma di tubetto che opportunamente recuperata e riciclata consentiva nei giorni successivi anche alle galline del parroco di celebrare la festa del paese. La domenica mattina, terminata la “Messa dei ragazzi”, e per tre giorni consecutivi, due grosse urne di vetro trasparenti comparivano sul lungo tavolo davanti al banco. Contenevano i biglietti arrotolati in attesa che mani apparentemente sicure o tremolanti, guidate da parenti e amici a pescare verso il fondo del contenitore, si accingessero a sfidare tanto la sorte nella malcelata speranza di portare a galla un po’ di agognata buona sorte, quanto il ferreo presidio innalzato dalla madre del prevosto e da una sua congiunta appositamente convocata dal Chierese. Poi, ed era ormai martedì sera, qualcuno finalmente saliva su quella bicicletta. L’aveva vinta e pedalando nel buio fresco dell’ultimo scampolo d’estate rapidamente si allontanava. La festa di Caselle era finita. A pochi passi, rumorosa e impaziente, ci aspettava l’ autopista per l’ultimo giro.

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