È vero. Capire tu non puoi, ma se vuoi chiamale emozioni.
Devo essermi ricordato di questa bellissima canzone dei primi Anni ’70 quando all’inizio del mese scorso, per la prima volta non da spettatore, sono entrato nella elegante e accogliente sala Cervi.
Era cominciata da poco l’ultima estate e una sera, all’improvviso, Giorgio Aghemo, presidente della locale Unitrè, mi chiese la disponibilità a raccontare in pubblico un pezzo della Caselle dell’altro ieri, che nel febbraio successivo tutti insieme avremmo potuto rivisitare, vedendo scorrere sulla tela luoghi e persone, testimoni e protagonisti, dei nostri anni migliori. A Giorgio il destino ha poi riservato altri progetti. E così quella ipotesi, quel desiderio di festa, nato in una calda sera di luglio, si è consumato, in un freddo pomeriggio d’inverno, nella certezza triste del ricordo. Un ricordo che mi ha accompagnato, insieme al pubblico presente, per le vie di una Caselle ancora paese, sulle ali invisibili di una stessa e sempre avvolgente nostalgia. Insieme siamo entrati in alcuni locali pubblici e nell’unico cinema di allora non dimenticando un giro di danza sotto il cielo estivo della Sportiva. In quello stretto spazio, congiunto minore della blasonata Lucciola di Ciriè, insieme ai provetti appassionati del ballo esordivano giovani ragazze che, ricevuto a fatica un permesso serale denso di raccomandazioni, erano poi riaccompagnate a casa da madri premurose che, successivamente sopraggiunte, si accomodavano su insidiose sedie in vimini protette a loro volta dal buio della sera. Appoggiato un golfino civettuolo sulle spalle, e lontano da mariti e curiosi indiscreti, dalla sigaretta accesa aspiravano insieme fumo e nuova libertà, ascoltando distrattamente il buon Pierino Ruo Redda, improbabile, nostrano Elvis che a breve porgerà la buonanotte.
Continuando il percorso, il vecchio lavatoio situato tra Via Leiny e la Circonvallazione, ovvero la familiare Porta Pra, in attesa che nelle nostre case approdassero le prime Candy, oltre a negare pubblicamente che i panni sporchi si lavano in famiglia, offriva l’opportunità sociale, a chi invece si accingeva a lavarli e risciacquarli fianco a fianco, di tentare i primi approcci con le difficoltà della lingua italiana.
Più avanti, verso il centro di Caselle, il glorioso caffè Garibaldi, di cui ancora appare incomprensibile il recente e triste epilogo, offriva l’opportunità di vedere all’opera accaniti giocatori di carte nonché sportivi in ansia davanti ai primi eventi televisivi, mentre il vicino caffè Ghi, frequentato durante la settimana da pochi esclusivi clienti, di sabato offriva un incessante andirivieni di gente comune che investendo cento lire nel pronostico calcistico Sisal del giorno successivo, sperava di sfuggire per sempre alle insidie della povertà, quella stessa che oggi noi non abbiamo scoperto, ma soltanto ritrovato.
E sulla Via Carlo Cravero, prima di arrivare al cinema Italia dove tra i vecchi arredi e la fragilità delle proiezioni sembrava di sentire la voce ancora stentorea seppur confusa della povera Teresa che offriva a cinque lire le sue scadenti caramelle, il caffè ristorante del Leone d’Oro riproponeva l’immagine del telefono pubblico, del tempo in cui la signora Maria di corsa percorreva il paese approdando nei suoi ampi cortili per annunciare l’arrivo di qualche importante comunicazione. E in un cortile, quello adiacente la trattoria di Enrietti alla periferia sud di Caselle , “Gino ‘dle ca neuve” , otre a servire robuste merende ai normali clienti o agli avventori di passaggio, costruiva laterizi in cemento, un settore in cui eccellevano nel vicino vicolo Balchis Pasqualina Barbera e Beppe Silvestro, madre e figlio più noti come i Briculin i quali provvedevano, con ottimo profitto,nad assicurare alla nascente edilizia, in particolare quella pubblica il crescente fabbisogno di tubi in sabbia e cemento necessari a disciplinare acque di fossati e bealere che pericolosamente scorrevano a ridosso delle zone abitate.
Finché un giorno apparve all’orizzonte una donna giovane e bellissima che sposò Beppe, lo introdusse nel mondo degli spettacoli viaggianti da cui lei, Angiolina, proveniva, e di quel settore dichiarò il marito immediatamente imprenditore.
Quella giostra innovativa che giorno dopo giorno prendeva vita nella nebbiosa Mantova, periodicamente raggiunta a bordo di una vecchia Balilla, issando in cielo, insieme alle speranze ed alle aspettative della famiglia, elicotteri e dischi volanti, pareva essere sinonimo di una nuova vita, pronta a decollare anche in un cielo sconosciuto. Per qualche stagione a Caselle la vedemmo all’opera sul Prato della Fiera in occasione della festa del primo maggio.
Beppe, ottimo calciatore della squadra locale, una domenica pomeriggio di ritorno dalla partita mi promise che mi avrebbe insegnato a calciare “all’ungherese”. È rimasta soltanto una promessa.
Emozioni in luogo pubblico
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