Uova di Pasqua e globalizzazione

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Nonostante a casa mia si sia ancora fermi ai panettoni, la Pasqua si è avvicinata a grandi passi e i supermercati, con grande anticipo, si sono riempiti di uova di cioccolato: ce ne erano di ogni genere: latte, nocciole, fondente, bianco e pistacchio e via fantasticando. E leggendo l’etichetta potevamo praticamente scegliere la sorpresa, dal giochino made in China all’articolo di bigiotteria made in Taiwan. Aggirandomi per queste corsie mi chiedevo: ma perché ci sbafiamo delle uova di cioccolato per celebrare la morte di Cristo? La risposta è ampia, ma oggi può essere riassunta in una parola: globalizzazione.
Le uova di Pasqua sono nate tanti anni fa, anzi, la tradizione di scambiarsi delle uova, simbolo della vita per eccellenza, è nata prima della Pasqua stessa. Si scambiavano uova i Persiani, gli Egizi, i Greci e pare pure i Cinesi. Le statue di Dionisio tenevano in mano delle uova, in Russia venivano messe nelle tombe. Il motivo dell’uovo cosmogonico si rintraccia ovunque: dalla Polinesia, all’Iran, all’America Centrale. I Cristiani ebbero la geniale intuizione di adottare una pratica già diffusa, facendola propria, metaforicamente rappresentativa del santo sepolcro, dura pietra se visto da fuori, ma pieno di vita all’interno. In occasione della Pasqua ci si donava reciprocamente questi simboli; nel medioevo i ricchi iniziarono a farne fabbricare di rivestite in metalli preziosi, dall’argento, all’oro, al platino. E così via. Fino a che nel Settecento, proprio a Torino, non iniziarono a fabbricarne di ancora migliori: di cioccolato. E di lì in poi la strada è stata in discesa: oggi mangiano uova di cioccolato in tutto il mondo. Non si può fare a meno di notare come in un uovo di Pasqua al cioccolato al latte di Hello Kitty venduto in Cina del significato originario sia rimasto ben poco. Quando poi lo apriamo e troviamo la cosiddetta sorpresa, prodotta anch’essa in qualche Paese del Sud del mondo per abbattere i costi e non sottostare a standard ambientali, ci togliamo definitivamente ogni dubbio. Cristo quell’uovo non lo avrebbe nemmeno voluto assaggiare. In ringkomposition, rieccoci: se oggi in ogni latitudine e longitudine del pianeta mangiamo uova di cioccolato uguali e con uguali sorprese è a causa della globalizzazione.
Si tratta di un fenomeno multiforme, di cui abbiamo visto per decenni solo i lati positivi, ma su cui oggi dobbiamo interrogarci in modo critico. Le grandi aziende, attraverso attente politiche di marketing riescono ad espandere la vendita dei propri prodotti, accumulando enormi profitti e omologando culture lontane e diverse. Ogni effetto si riproduce a livello globale, con rischi di effetto “domino” molto più elevati. Prendiamo proprio le nostre uova. Le rompiamo, mangiamo la cioccolata, scartiamo la sorpresa: probabilmente sarà il classico oggetto inutile, prodotto a basso costo nel Sud del mondo, trasportato in occidente per esservi venduto. L’impronta ecologica globale sarà enorme e sostanzialmente “sprecata”, dato che la sorpresa  finirà in qualche cassetto – o cassonetto – una settimana dopo essere stata scartata. Per produrre la sorpresina nell’uovo di Pasqua venduto in Italia si è sfruttato un lavoratore di uno stato più povero e si è inquinato in uno stato più povero. E il prodotto finale, risultato di queste azioni con un forte impatto locale, è stato poi esportato, aumentando le disuguaglianze globali. In economia si parla di esternalizzazione dei costi. Senza contare le montagne di rifiuti, tra carta, stringhetti, involucro per la sorpresa, sorpresa e vasetto per reggere l’uovo in piedi, che prima o poi andranno nella pattumiera. Allarghiamo gli orizzonti, soprattutto se immaginare che un banale uovo di Pasqua produca tutti ‘sti casini vi fa sorridere. Primo: non vale solo per le nostre uova: quasi ogni oggetto che maneggiamo viene prodotto in questo stesso modo e l’impronta ecologica totale è qualcosa di davvero dirompente. Secondo: spesso questi consumi sono giustificati esclusivamente da un’ottica consumistica e ultraliberista, che ci ha permesso di raggiungere con uno standard di benessere mai così alto nella storia, ma che oggi ci sta presentando un conto salato. Terzo: a noi cittadini qualunque viene da dire “ma almeno un uovo lo compro”. Siamo colpevoli? Sì, lo siamo, ma anche perché non abbiamo scelta. Siamo consumatori razionali: se l’uovo artigianale della pasticceria costa dieci volte quello del supermercato, noi ci accontenteremo del secondo. Nell’acquisto delle uova di Pasqua, come anche nella lotta alle diseguaglianze o al riscaldamento globale, il cambiamento comportamentale del singolo individuo, anche se importantissimo, nel concreto è purtroppo pressoché irrilevante. Servirà un cambio di rotta sovranazionale, con politiche vere, che penalizzino i costi ambientali e sociali della produzione. Il mito salvifico per cui la tecnologia ci salverà dal collasso è economicamente superato: dovremo mettere in discussione il capitalismo in sé, creando un nuovo modello socialmente e ambientalmente sostenibile. Oggi non abbiamo dubbi su quale uovo di Pasqua comprare, domani non avremo più scelta per cambiare modello economico: faremo qualcosa prima che sia troppo tardi per salvaguardare il pianeta?

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