Il ritmo, la musica e la parola

Poeti beat dall’estrema cintura

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La nostra è una zona fertile di talenti letterari. Basta ricordare che a Ciriè e a Nole sono cresciuti, rispettivamente, Ugo Ricciarelli e Giuseppe Culicchia, due fra i più affermati scrittori italiani contemporanei. Ma se ai romanzieri nostrani è stata riconosciuta fama nazionale e magari imperitura, non è accaduto lo stesso ai poeti. La loro produzione, seppure di alto livello, è restata circoscritta a una nicchia di estimatori. La poesia sembra oggi qualcosa di anacronistico, travolta dai fragore dei nuovi mezzi di comunicazione. E in un paese come il nostro, dove non legge più nessuno e dove un libro diventa un bestseller vendendo poche migliaia di copie, la poesia è la forma letteraria più dimenticata, relegata ormai nell’ambito dello studio scolastico e di pochi circoli esclusivi. Ma solo pochi decenni fa non era così e la poesia, con Kerouac, Ginzberg, Corso, Ferlinghetti e altri autori della Beat Generation, era una componente centrale della cultura giovanile. “Il termine beat risale all’incirca al 1955, ed era un modo di dire musicale, jazzistico. Indicava la battuta, il ritmo. Fu Kerouac che con un istrionismo intenzionale volle tradurre la parola come una sincope di beatus. La cosiddetta beat generation fu, purtroppo, un’invenzione mediatica, desiderosa di definire, catalogare”. Così Gianni Milano, uno dei fondatori del beat italiano, residente e attivo nel Ciriacese per diversi anni, spiega il significato del termine in un’intervista che realizzai nel 2003 presso la sua casa torinese a ridosso del Balòn e che in seguito divenne il libro elettronico Essere Beat. La scrittura beat ha dunque una stretta parentela con il linguaggio della musica e con questa è sempre andata a braccetto. La musica non mancava mai durante i readings e non era semplice accompagnamento o sottofondo, ma elemento attivo e dinamico che si compenetrava e interagiva con la lettura.

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Gianni Milano, che crebbe poeticamente negli anni in cui lui e gli altri giovani beatniks si incontravano nella casa milanese di Fernanda Pivano, è autore di un gran numero di antologie poetiche, articoli e libri di argomento pedagogico-educativo, oltre che dell’autobiografia “Il maestro e le margherite”, pubblicata per Stampa Alternativa nel 1998, che ripercorre la sua esperienza umana di poeta, maestro elementare e pedagogista fuori dagli schemi.
Nell’ambito della cultura underground italiana, ispirata dagli autori della beat generation, si colloca anche la produzione di Pier Castrale. Nato a Torino nel 1955, Castrale visse a Ciriè fra gli anni Settanta e Ottanta e in seguito a Mathi fino all’inizio degli anni Novanta. Il suo libro di esordio, “Le rovine curiose”, ormai introvabile, venne pubblicato nel 1979 dalla casa editrice forum/Quinta Generazione con una prefazione del famoso critico letterario Giorgio Barberi Squarotti e fu oggetto di studio e di approfondimento in alcuni seminari presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino.

Così scrisse il critico torinese:

“Mi è accaduto raramente di incontrare una testimonianza più clamorosa e chiara di prepotente, violenta, fiammeggiante vocazione poetica di quella che offrono questi versi di Pier Castrale: che colpiscono immediatamente per la capacità straordinaria di trasfigurazione delle esperienze e dei dati reali, concreti di un’appassionata e disperata vita giovanile, ma anche delle esperienze e delle memorie della letteratura e delle storie, fino a una visionarietà esasperata, anche bizzarra, un poco cupa e tragica, che accumula luoghi e personaggi fra l’invenzione e il sogno e li mescola e li fa esistere in un contesto precisamente nominato di posti familiari, di dati quotidiani, comuni.”
Alcuni anni dopo la scomparsa di Pier Castrale, avvenuta nel 2010, la casa editrice vercellese Effedì ha dato alle stampe Absentia, un volume che raccoglie tutto ciò che l’autore ha scritto dalla seconda metà degli anni Novanta fino al 2007. Un centinaio di poesie, delle quali almeno una sessantina inedite. Qui il tono delle liriche è diverso da quello del volume di esordio, in cui la componente politica e sociale era molto più evidente. È lo stesso autore, in alcuni appunti che aveva lasciato in allegato alle poesie, a spiegarne il contenuto. Si tratta di liriche che esprimono una fase più ripiegata, da “riflusso”, più intima, su cui aleggia il senso di una morte in solitudine, fredda, algida. Ma anche i momenti più cupi e crudi vengono subito ripresi con un verso ironico, un messaggio finale, quasi, a volte, grottesco.

All’ uscita di scuola

All’ uscita di scuola – cinque del pomeriggio
andavo a comprarmi della liquirizia
o un gelato con i soldi risparmiati
Anche la pizza bianca e le figurine mi piacevano
Tornavo a casa – in una sera dopo la pioggia
avevo un’ abat-jour per cappello – già allora
ma ero felice lo stesso – con i miei occhiali senza vetri
passavo lungo un muro di mattoni – e poi un cinema di periferia
che — dicevano le mie suore — era sporco di giorno e di notte
più avanti la vetrina dei soldatini – passavo ore lì seduto
e il campo da pallone
la fabbrica…
Ed ero felice
e nessuno mi capiva
e tutti volevano capirmi
ed ero ancor più felice
attaccato al semaforo – scappando dentro ai cantieri
Mio padre allora era giovane
con la seicento correva per i prati
accorciando la strada
ma allungando la sua
e la processione a S. Rita – vestite di bianco le bambine
ed io correvo intorno
inseguendo i miei razzi per la testa
Mi volevano picchiare
la volta che falsificai il voto di recitazione
accarezzai la mano d’una bambina
tradii gli amici
scrissi su un muro
rubai un quaderno colorato
Trovai un portafoglio e lo restituii

fui ringraziato con rose rosse
e incubi erotici – ogni notte
fazzoletti stretti al collo
era tutto al posto giusto
il ciclo
le case
le pietre dei prati di città
solo pietre
e Fidel conquistava Cuba
e lo Sputnik volava nello spazio
e tutto era proprio come oggi.

Pier Castrale, 1979

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