La collina torinese è straordinaria. Ti sei appena lasciato alle spalle il caos di Piazza Vittorio, hai cominciato a pigiare sui pedali per attaccare la salita, che ti trovi in un mondo inaspettato; del tutto estraneo al resto della città.
In collina, nelle loro ville celate fra la vegetazione, i ricchi subalpini si compiacciono di contemplare con distacco la coltre tossica e nevrastenica che incombe sulla città. Eppure la collina torinese non riesce a diventare campagna amena. Ha qualcosa di inguaribilmente lugubre. Qui, più che altrove, sembra aleggiare lo spirito luciferino che secondo molti domina la città e la unisce a triangolo scaleno con Praga e Lione. Come se l’influsso del Sacro Graal, che la statua di fronte alla Gran Madre innalza al cielo come un losco trofeo, irradi tutti i territori retrostanti. Così mi va di pensare oggi, in vena noir, ma in realtà so bene che la faccenda è molto più prosaica: in collina, più che altrove, percepiamo il mistero, perché il mistero è entità aristocratica, che ha bisogno di silenzio, di crepuscolo, di vecchie madame rugose piene di soldi e tempo e noia da vendere per scomodare gli spiriti; ha bisogno di antichità, di palazzi o per lo meno di ville, di quadri di antenati dallo sguardo torvo, di opulenza insomma. Avete mai sentito di fantasmi che frequentano i condomini delle case popolari della Falchera o delle Vallette?
Pedalando nel pomeriggio tardo di un agosto che non è mai abbastanza desolato, sotto un cielo afoso e sulfureo, costeggio il Po, verso Sassi. Lo sguardo cade sulla targa che i marinai d’Italia hanno affisso sulla casa di Salgari. Paradosso dei paradossi: a lui che non ha mai navigato, se escludiamo un breve viaggio da passeggero, nelle tenui e prevedibili acque adriatiche. Da Trieste a Brindisi e ritorno, costeggiando la Dalmazia. Si dovette accontentare di questo, non essendo riuscito a conseguire il brevetto di marinaio di carriera.
Percorro il perimetro della casa, una casa semplice, povera persino, ma con il ragguardevole privilegio di avere balconi retrostanti che s’affacciano sul Po. Dietro c’è un piccolo parco in riva al fiume. Qualche pensionato in bici. Mi siedo su una panchina e mi vedo Emilio seduto su questa stessa panca, col bastone e l’inseparabile paglietta bianca. A osservare gabbiani e colombi ma vedendo tutto un altro fiume e altri animali e altra gente. Non i munsù in gita domenicale sulla barca, ma pescatori dalla pelle scura sui loro praho coi bilancieri in bambù, a scivolare rapidi e silenziosi sopra il Saravak. Per poi alzarsi, non appena la mente viaggiatrice riprende possesso del corpo. E imbracciare la bici pure lui (ce l’avrà avuta una bici, il vecchio Emilio?) e raggiungere qualche caffè di Corso Casale; per raccontare la storia di un viaggio improbabile appena compiuto in Estremo Oriente e l’amicizia con un pirata portoghese di nome Yanez de Gomera. Storie a cui lo scrittore forse credeva per davvero. Pronto a sfidare a duello chi le mettesse in discussione.
Un destino di viaggiatore da salotto, che Salgari condivise con Alberto Della Valle, il pittore partenopeo che illustrò la maggior parte delle sue avventure. Celebre questo Della Valle, quasi mitico, non soltanto per le sue tavole, ma anche per il fatto che per disegnarle prendesse spunto da curiosi talbeaux vivant fotografici realizzati nel suo appartamento napoletano, con cugine e cognati arrampicati pericolosamente sui mobili del salotto, a far da principesse e pirati; e mestoli e matterelli come spade e fucili. Anche lui, come Salgari, eroe e infine vittima di incredibili viaggi casalinghi. Ai limiti della follia o della psichedelia. Viaggi dai quali era arduo ogni rientro. Viaggi ben più pericolosi di quelli autentici. Anzi spesso fatali.
Rimonto in sella e comincio a salire, lungo l’arrampicata spaccagambe che s’inerpica in collina. Quasi per inerzia, o forse per sfuggire alla fatica della salita, imbocco un sentiero che si dissocia dall’asfalto e in un attimo, come d’incanto, ho abbandonato la città domestica e familiare. Attraversando un buco nero spazio-temporale, che soltanto l’infinita magnanimità del dio della bicicletta m’ha permesso di individuare, penetro nel cuore della più selvaggia e autentica Malesia torinese. Questi boschi ancora oggi belli, nonostante la vicinanza della metropoli smarmittante, furono le vere giungle di Mompracem, isola che invano cercheremmo sull’atlante, ma che esiste per davvero. Per molto tempo era stata considerata un’invenzione salgariana, finchè, negli Anni Settanta, un tal Giulio Raviola l’ha scoperta. Un bel privilegio ha avuto costui: scoprire un’isola, negli Anni Settanta! L’ha visitata e vi ha collocato una targa a ricordo di uno scrittore che in Malesia nessuno, ma proprio nessuno, sa chi sia.
L’isola su cui lo scrittore immaginò il covo del pirata gentiluomo Sandokan si chiama oggi Kuraman, e si trova poche miglia a nord ovest del Borneo. È ancora quasi disabitata e, fatto insolito, non è ancora stata colonizzata dalle fabbriche del turismo di massa. Sugli atlanti ottocenteschi che Emilio, gran viaggiatore di biblioteca, visitava abitualmente, si chiamava Mompracem, anzi Monpracem, con la enne.
Io non l’ho vista questa Kuraman, ma conosco bene queste isole del Mar Cinese meridionale. Coperte da una giungla rigogliosa, quasi impenetrabile, che scende al mare, lasciando appena lo spazio per sottili spiagge rosate di corallo.
Vagheggio un futuro allucinante, forse non così improbabile e neppure così lontano, quando sulla povera Kuraman costruiranno un parco divertimenti, come quello che oggi troviamo su Sentosa, isola dei Balocchi di fronte a Singapore. Un mostruoso parco a tema, tutto incentrato sulle opere e sui personaggi dello scrittore veronese. Più qualche aggiunta presa dai cartoni giapponesi, streghe dai poteri soprannaturali. In questo Salgari Park combatterai duelli contro il simulacro elettronico della tigre o di James Brook, come nel Mondo dei Robot. Ahimè, spero di non aver messo la pulce nell’orecchio di qualche magnate del petrolio che non sa come investire i lauti compensi che gli derivano dalla remunerativa pratica di avvelenare il pianeta.
Svaniscono questi deliri, insieme ai ricordi dei miei viaggi in Oriente; e si dissolvono anche i protagonisti improbabili degli 85 libri di Salgari, troppo eleganti e puliti e pettinati nei loro abiti liberty e nei loro baffoni all’umbertina. E già altre entità salgariane prendono possesso di questi boschi. Qualcosa di terribilmente più sinistro: ectoplasmi traslucidi che paiono crescere come funghi malefici dal sottosuolo. Prima fra tutte la moglie dello scrittore. Donnona intabarrata nella sua follia. E poi lui, Emilio, che proprio da queste parti s’uccise con una sciabola uscita per l’occasione dai suoi romanzi. E i suoi figli Omar e Romero, suicidi anch’essi, alle soglie degli Anni Sessanta. E infine Alberto Della Valle, legato da un destino sottile e crudele con lo scrittore oriundo torinese. Un destino che si compie nella notte di Natale del 1928. Un colpo alla testa con la pistola col manico di madreperla, che sempre, nei suoi disegni, riservava al principe Sandokan.
Ahi, Emilio, marinaio d’acqua dolce! Viaggiatore da salotto e da biblioteca, avvolto da quest’aura contagiosa di sfiga senza pietà. Chi l’avrebbe mai pensato, quando, da ragazzino, leggevo i tuoi libri nel mio rifugio sopra il fico! E ti immaginavo ex marinaio tipo Conrad, che avevi navigato il mondo vasto per poi precipitare chissà come in questa città lontana mille miglia mentali dal mare, forse per seguire qualche capricciosa Marianna, madamina subalpina.
Il crepuscolo sta sgusciando piano nella notte. Meglio andarsene da qui. L’atmosfera s’è fatta spessa. E la bici scivola volentieri lungo la discesa. Laggiù, in riva al fiume, in uno dei tanti localini che spuntano durante l’estate, sento risuonare le note lievi, ipnotiche e rassicuranti di Bob Marley. Le stesse che in questo stesso momento riecheggiano come un inno del sud del mondo. Un flusso tiepido, che cinge come fumo inebriante l’intero pianeta, dall’equatore ai tropici.
Salgariana, la Malesia torinese in bicicletta
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