My generation

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Non ho memoria di quando sentii per la prima volta classificare le generazioni con lettere dell’alfabeto o descrizioni;  ricordo che andai  a curiosare a quale di queste appartenessi: sono un “boomer”. All’epoca un “baby boomer”. Insomma nato nel pieno di una esplosione demografica oggi impossibile da replicare, durante la quale i nostri genitori avevano sicuramente poco, ma quel poco era basato su solide basi: lavoro, speranze per il futuro e una visione a lungo termine più serena e comunque un approccio alla vita quotidiana più semplice, meno normata, senza troppe classificazioni. E nascevamo noi. Tanti.
Negli anni l’essere boomer è diventato sinonimo di chi non è più al passo con i tempi e non comprende o non riesce ad utilizzare le nuove tecnologie, un vecchio insomma: quante volte abbiamo chiesto ai figli se non ai nipoti, magari frettolosi e spazientiti di aiutarci a “scaricare un file”, o a fare l’ “up grade” di una applicazione.
Quanti inglesismi o acronimi: più brevi, immediati, in linea con la velocità che i tempi odierni impongono.
Ecco, dalla generazione boomer a quella attuale, la generazione Alpha, tutto è stato velocizzato in maniera esponenziale, tutto è fruibile nel tempo di un clic, di qualunque cosa si tratti: un acquisto, una spesa, un amico, una ricerca a scuola, una canzone.
È subito tutto qui, senza sforzo, addirittura basta dirlo mentre guardi sospettoso Alexa che ti propone trapani tassellatori solo perché ieri ne parlavi in casa.
È diventato tutto così a portata di mano che il gusto della ricerca di un qualcosa, di qualsiasi cosa, è stato azzerato.
E con questo anche la soddisfazione, un vago compiacimento, il piacere dell’aver risolto un problema senza l’ausilio dell’intelligenza artificiale così amata dai più.
Forse sono spariti anche i sorrisi, e sicuramente i contatti umani, il semplice gesto di suonare un citofono e dire: “Sono io!”, l’abbraccio.
Esagero probabilmente, ma una buona percentuale di tutto questo è scomparsa, ed i risultati negativi di questo vivere “smart” si vedono soprattutto sui giovani, in particolar modo nelle generazioni Z e Alpha. Mezzo milione di studenti che ricorre agli psicofarmaci  e non solo, magari a poco prezzo e ingeriti con un po’ di alcool per colmare il nulla, l’abisso delle ore passate sui social a cercare un appiglio per uscire dalla depressione, o dall’incertezza.
Spesso tutto questo si consuma, si subisce sul cellulare, nemmeno un PC o un portatile, ma su uno strumento pratico, leggero, da poter utilizzare al buio della propria stanzetta buttati sul letto e isolati dal mondo a scrollare pagine e pagine senza fine, scollati dal tempo che passa inesorabilmente vuoto.
Il mix di abuso di internet in tutte le sue forme, solitamente le più pericolose, e di alcool, droghe, psicofarmaci, di genitori insicuri e fragili anch’essi che vedono i propri ragazzi solo a cena, svogliati, silenziosi, è l’insieme di fattori che ha contribuito a perdere parte di una generazione.
Rimuoviamo i loro ostacoli in anticipo, quasi non esistessero: dal voto sotto al quale non si può scendere, alla promozione facile se non certa, e pochi “no”, pochi “questo non si può”, e così via.
Li abbiamo resi insicuri togliendo loro anche la più piccola asperità, spazzando davanti a loro qualunque cosa li possa turbare, senza confronti con qualcuno, se non l’ormai onnipresente psicologo: una categoria in continua espansione; e non solo per i ragazzi.
Deboli da non reggere l’idea di un fallimento, che per loro natura dovranno affrontare: un lutto, una delusione, un insuccesso, la fine di un amore.
Il discorso è generico, intendiamoci, ma è una realtà che dilaga sempre più. Gli abbiamo caricato sulle spalle un mondo malato e giornate frenetiche per tenerli occupati e mezzi per comunicare da fermi, al chiuso. I più grandi hanno un vuoto dentro ed una gran paura del futuro,  senza capire ciò che desiderano, inascoltati, confusi, genitori compresi i quali dovrebbero (se possibile) cogliere i segni del disagio.
E sicuramente questo non è un Paese per giovani.
Nell’attesa inerte della prossima pastiglia, della prossima bottiglia, dell’ennesimo colloquio con uno medico sconosciuto, saranno sempre più disillusi.

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Luciano Simonetti
Sono Luciano Simonetti, impiegato presso una azienda facente parte di un gruppo americano. Abito a Caselle Torinese e nacqui a Torino nel 1959. Adoro scrivere, pur non sapendolo fare, e ammiro con una punta di invidia coloro che hanno fatto della scrittura un mestiere. Lavoro a parte, nel tempo libero da impegni vari, amo inforcare la bici, camminare, almeno fin quando le articolazioni non mi fanno ricordare l’età. Ascolto molta musica, di tutti i generi, anche se la mia preferita è quella nata nel periodo ‘60, ’70, brodo primordiale di meraviglie immortali. Quando all’inizio del 2016 mi fu proposta la collaborazione con COSE NOSTRE, mi sono tremati i polsi: così ho iniziato a mettere per iscritto i miei piccoli pensieri. Scrivere è un esercizio che mi rilassa, una sorta di terapia per comunicare o semplicemente ricordare.

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