Più che un’estate da ricordare, quella appena trascorsa sarà un’estate da analizzare.
Alzi la mano chi sul limitare di giugno avrebbe mai immaginato che ci avrebbero atteso giorni da far sberluccicare gli occhi, da far gonfiare il petto, euforici di riscoprirci d’un botto fieri d’essere Italiani, stretti a coorte attorno a uno stuolo di ragazzi che da Wembley, a Wimbledon, a Tokyo ci ha raccontato storie meravigliose.
Noi, ambigui per antonomasia, “ chiagne e fotte” per definizione, normalmente eccezionali quando costretti dalla disperazione a reagire, catenacciari e contropiedisti, ci siamo specchiati, increduli, nella Nazionale di Mancini, nella possa michelangiolesca di Matteo Berrettini, nella velocità di Marcell Jacobs, nelle volute di Gimbo Tamberi: tutti capaci di affrontare l’avversario a viso aperto, senza infingimenti. Rapaci e resilienti, sfrontati ma con acume. Roba mai vista.
L’apice della commozione l’abbiamo raggiunto due volte: la prima, con la più inattesa e sublime delle medaglie d’oro, quella conquistata da quel meraviglioso quartetto azzurro capace di correre più del vento nella 4X100; la seconda, quando alle paralimpiadi tre meravigliose nostre donne hanno ammantato i 100 metri piani, monopolizzando il podio e vestendolo di tricolore.
L’estate ci ha detto tanto, quasi tutto. Che basta guardare nelle pieghe di questo nostro bistrattato Paese per scovare che non siamo ciò che il tristo teatrino della politica e del malaffare ci propone ogni giorno: c’è di più e c’è di meglio.
A un certo punto sembrava che il centenario motto olimpico – citius, altius, fortius: più veloce, più alto e più forte – fosse stato creato per noi, per quei ragazzi imprendibili che ci stavano regalando un sogno da estasi. Al motto originario il C.I.O. ci ha voluto aggiungere un “ communiter” da 4 in pagella, visto che “simul” sarebbe stato infinitamente più corretto, ma il concetto di insieme è quello che meglio si attaglia alle imprese dei nostri.
Mancini ha forgiato una squadra capace di imporsi, quasi del tutto priva di campioni: c’è riuscito puntando sulla coesione, sul gruppo che doveva far fronte comune per reggere l’urto e raggiungere coraggiosamente l’obiettivo. Matteo Berrettini è il prototipo nuovo del tennista italiano: parla poco e fa molto. Non ha di nulla di “ vanziniano” pur essendo bello come un semidio greco; non protesta e non s’abbatte mai. Sta da due anni stabile tra i primi dieci giocatori al mondo: difficile che tradisca, proprio come mai hanno fatto certi che l’han preceduto. Italiano anomalo Matteo? Se gli chiedi, italiano e basta ti risponde, perché di etichette non sa che farsene.
Dei quattro della staffetta, delle tre ragazze paralimpiche che dire? Chi meglio di loro rappresenta chi siamo? Più del divino e già leggendario Jacobs, sono Eseosa Fausto Desalu e Monica Contraffatto a dirci di più. Monica e la sua protesi sono arrivate terze, ma prime nei cuori: una mina afghana avrebbe potuto spezzarle la vita, ma lei è stata più forte di tutto. Fausto è ciò che siamo: una società multietnica che sa prendere forza dalle differenze, che può riscattarsi solo attraverso la serietà, l’impegno e il lavoro duro. Ora i nostri volti hanno una gamma variegata di colori e sono bellissimi: quello di Paola Egonu, fresca campionessa d’Europa con le ragazze del volley, quelli di Marcell Jacobs e Fausto Desalu sono solo alcuni visi della nuova Italia. Sono lì a dirci che “ prima gli Italiani” è solo uno slogan balordo: se gli Italiani sono primi è perché abbiamo gente come loro. Poi, basterebbe conoscere solo un po’ la storia per sapere che da sempre siamo il più stupendo melting pot che sia mai esistito. Mica no.
Un’estate d’oro
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