Tirano venti sempre più grami e impetuosi.
E, più che mai, sembra che davvero del doman non vi sia certezza.
Si badi che qui e ora l’attenzione non è tanto da focalizzarsi su una sempre più tragica situazione bellica e geopolitica mondiale, quanto su ciò che è avvenuto, avviene e avverrà in questa landa a nord ovest, dove ogni giorno mandato in terra fa cogliere la sensazione che un declino irrimediabile e più che palese sia già ben dentro alle porte.
Il degrado che una certa politica torinese ci ha consegnato nelle settimane scorse già molto direbbe di suo, ma è quello che ne consegue che maggiormente ferisce. Ne consegue il nulla, esattamente come accade dopo una puntata di Report, o un Data Room della Gabanelli, dove ti aspetti che venga giù il mondo per la gravità dei fatti acclarata e invece non succede nulla. Non succede nulla e tutto resta uguale a prima. Resta solo lo schifo di sapere che, al di là di “vibranti indignazioni”, non c’è volontà alcuna di rimedio.
C’è un’inquietante rassegnazione, come quella che sta cogliendo troppo del nostro mondo del lavoro. Un paio di settimane fa s’è quasi gridato al miracolo perché diecimila persone si sono ritrovate in piazza per manifestare cosa sta facendo e non sta più facendo Stellantis per Mirafiori. Stellantis è sempre più grande e ricca ma ha cervello, cuore e portafoglio altrove, e non è certo più ciò che resta della Fiat il cuore pulsante della città. Bisogna, si deve cercare da altre parti. La politica attuale poco o nulla può per contrastare quello che ormai è un dato di fatto. Ha armi povere e inidonee, e quotidianamente c’è una serranda in più che s’abbassa e cento nuove famiglie in crisi.
Che fare? Scuotersi, occorre scuotersi e provare a non procedere come sonnambuli.
Servono soprattutto visioni e idee.
Anche la nostra Caselle può rientrare in questo discorso?
L’idea di sviluppo legata alle famigerate Aree ATA deve essere ancora sul comodino di qualcuno, ma per ora, per quel che se ne sa, è abbastanza lettera morta, ma altri progetti possono essere intentati. Per dire: e se il nostro futuro dovesse essere cercato riscoprendo il nostro passato?
Forse l’occasione più propizia l’abbiamo mancata trent’anni fa quando sarebbe stato opportuno acquisire l’intero complesso del Lanificio Bona e farne un polo museale e turistico d’avanguardia. Ma così non è andata e non è poi detto che sia troppo tardi. Noi abbiamo tre matrici: la carta, che ci innalzò all’onore del mondo fino a far sì che la Bibbia di Gutemberg venisse stampata su candidi fogli casellesi; il tessuto, lana o seta che fosse, che per secoli ha visto grandi opifici nella nostra terra; gli aerei, che dal 1935 ci tengono comoda e scomoda compagnia. Da questo si può partire.
Sapessimo riunirci per studiare a tavolino come supportare in modo intelligente la tutela del nostro patrimonio storico e culturale, faremmo gran cosa. Intanto, mettendo sotto vincolo il centro storico e gli edifici – anche industriali – d’un certo rilievo, impediremmo, come un’unica soluzione, l’abbattimento di massa, col rischio, come già questo giornale ha paventato negli anni più e più volte, che Caselle diventi una ciambella: con un bel buco in mezzo, fonte per mille parcheggi e il nulla.
Poi per evitare che recidendo le nostre radici quel po’ di identità rimasta scompaia per sempre. Ci siamo già praticamente giocati la facciata aulica del castello, i suoi affreschi sono sempre più sbiaditi, sorvegliati da un ponteggio che è più disgraziato ormai degli affreschi stessi.
Dobbiamo continuare così?
Scuotersi
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