La nostra Italia, quella che ci ha visti crescere e poi realizzarci, era un Paese che si stava ancora riprendendo dalle conseguenze della seconda guerra mondiale. Era sostanzialmente diviso in tre nitide classi sociali: la borghesia – e non parlo dell’alta, che già allora giocava in un altro campionato…-, che trainava il potere; la media e piccola borghesia che faceva viaggiare a mille la nazione del “miracolo economico; quindi il terzo stato, costituito dalla classe operaia. A dirla tutta, v’era anche un quarto stato, ben rappresentato dalla sacche più povere del Paese, dove povertà, disoccupazione e analfabetismo erano effetti stabili. Dopo la dittatura, il processo di ricostruzione – col magma democristiano a coprire l’instabilità politica e sociale – fummo colti da un clima euforizzante che spesso ci portò a non voler considerare il presente, visto che eravamo proiettati verso un futuro che sentivamo sarebbe stato, innegabilmente, migliore. Come isole d’un arcipelago – tutti insieme, ma ben separati e divisi – abbiamo corso e percorso “ i migliori anni della nostra vita”, superando tragedie come il terrorismo e lo stragismo: avanti veloci, forti del fatto che la nostra situazione socio-economica continuava a migliorare. Anche se continuiamo a denigrarlo, il nostro Paese, grazie allo sforzo comune, è diventato una delle più grandi economie in Europa ed è ritenuto universalmente “ the place to be”, il posto dove stare, per il suo ricco patrimonio culturale, le bellissime città, l’enogastronomia. Nonostante questi progressi, tuttavia, i giovani in Italia incontrano ancora troppe difficoltà.
Il mercato del lavoro rimane insoddisfacente per i ragazzi, con alti livelli di disoccupazione e bassi livelli di sicurezza, scarse garanzie in termini di previdenza, discrepanza tra domanda e offerta. Molti faticano a trovare un lavoro che corrisponda alle loro capacità e ai loro interessi, e sono costretti ad accettare mansioni che non sono in linea con le aspirazioni professionali. Scoraggiante per chi ha investito molto tempo e denaro in istruzione, scoraggiante per chi vorrebbe una vita autonoma ed è costretto a vivere a casa con i genitori, anche dopo i trent’anni, visto che non può mantenere un affitto e pensare a metter su famiglia.
Però corre l’obbligo di invertire la tendenza, di provare a cambiare le cose e continuare a coltivare sogni.
Ecco, se c’è una cosa che spaventa è leggere negli occhi dei ragazzi la rassegnazione: la distopia, prefigurando soltanto scenari negativi, non può e non deve essere l’unico futuro ipotizzabile.
Ci sono, ci devono essere ancora sfide da accettare e da cogliere in Italia. Recentemente mi ha molto colpito il messaggio che il tennista Novak Djokovic ha inteso lanciare ai giovani: “Sognate in grande. Non importa da dove venite. Più difficoltà incontrate nella vita, più sfide superate, più tutto questo vi renderà forti.
Non permettere a nessuno di portare via il tuo sogno. Nutrilo, annaffialo come fai con le piante. Anche se c’è solo una persona al mondo che ti accetterà, che abbraccerà e sosterrà il tuo sogno, trovalo e sogna in grande. Perché puoi farcela.”
Qualcuno potrà obiettare che è facile dire certe cose da certe posizioni, ma giovi ricordare che Djokovic è venuto su dalla Serbia in guerra e se è diventato quel che è, è perché le motivazioni interiori hanno fatto la differenza. Motivazioni che noi abbiamo un po’ smarrito e che vanno rispolverate in fretta. Per continuare a poter sognare.
Poter sognare
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