Si narra che un dei più celebri artisti del Surrealismo una volta avesse detto che “l’arte è fatta per disturbare, la scienza per rassicurare”. Detta oggi, è questa frase che ha un ché di surreale: se infatti l’arte ancora ci disturba, soprattutto quando si tratta di terrificanti esempi architettonici progettati da qualche architetto troppo ambizioso o di oggetti che anche noi possediamo in cucina elevati a capolavori da museo, al contrario la scienza non ci rassicura più. Come dopo la crisi del 2008 abbiamo sfiduciato i “professoroni” dell’austerity, l’applicazione delle cui dottrine è stata con il senno del poi platealmente fallimentare, allo stesso modo dopo la crisi sanitaria del 2020, causata dalla pandemia da Covid-19, stiamo sfiduciando la scienza. Ogni sera vediamo in televisione diversi mega-esperti di questa o quella branca della medicina che ci spiegano tutto e il contrario di tutto. Troviamo lo scienziato che consiglia di tener chiuso e quello che consiglia di riaprire, quello che vuole il coprifuoco e quello che non lo vuole, quello che vaccinerebbe pure il cane e quello che consiglia di sospendere AstraZeneca per i rischi di trombosi. Burioni, Locatelli, Crisanti, Gallo, Zangrillo e via di questo passo: non avevamo mai visto così tanti camici bianchi in televisione, nemmeno su Grey’s Anatomy. E soprattutto non ci saremmo mai aspettati di vederli in disaccordo dividersi in fazioni avverse, perché “le verità scientifiche non si decidono a maggioranza”: lo diceva già Galileo cinquecento anni fa. Dal punto di vista del metodo scientifico in realtà questi disaccordi non dovrebbero stupirci. Da sempre la scienza è un qualcosa di limitato, che procede avvalendosi di esperimenti, per prove ed errori, sbagliando, arenandosi, fino a passare dall’ignoto alla verità. Questo però si scontra con l’immagine sociale della scienza, vista come un qualcosa di esatto e matematico, fonte suprema di certezze. Gli esperti, come abbiamo detto, la hanno fatta da padroni, ma la scienza nel complesso ha perso quell’affidabilità di cui godeva prima. I contrasti interni alla comunità scientifica mondiale, dettati vuoi da semplice, iniziale e banale mancanza di informazioni certe sul virus, vuoi da specifiche narrazioni politiche finalizzate a sminuire il problema, hanno finito per generare più incertezza che sicurezze. Non hanno giovato infine le titubanze e i ripensamenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, legata dagli ambigui rapporti politici del suo Presidente Tedros con la Cina. Ad amalgamare queste discordie, creando una miscela esplosiva, non sono tuttavia stati gli scienziati, che da sempre battibeccano su chi abbia più ragione, quanto coloro che hanno filmato questi battibecchi e li hanno mandati in mondovisione: i media. Si è generata una vera e propria “infodemia”, anche nelle edizioni di grandi e storici quotidiani, dove i toni inizialmente apocalittici sono arrivati a diventare quasi complottisti. C’è stato un perenne (e fastidioso) protagonismo mediatico, sovralimentato e monotematico, che ha portato a mettere in secondo qualunque argomento non fosse collegato con la pandemia in corso. Abbiamo visto per mesi bollettini recanti il numero dei morti, come in guerra, senza però poter imbracciare un fucile e scendere in strada a combattere. Anzi! E di fronte a questi cittadini spersi, magari in cerca di poche, chiare e semplici informazioni, i media hanno risposto con un’iperinformazione disastrosa, che non ha fatto altro che confonderci abbattendo ulteriormente le nostre speranze. Si sta commettendo con la scienza lo stesso errore che si è commesso diversi anni fa con la politica: la si sta spettacolarizzando, raccontando le informazioni non in base alla loro veridicità, ma in base alla loro sensazionalità. Con il risultato che, come non ci fidiamo più dei politici, un domani potremmo non fidarci più degli scienziati o, ancora peggio, fidarci solo dello scienziato che ci dice la presunta verità che più ci aggrada. Inseguire il mercato, affamato di notizie succulente, è una buona strada per vendere tanti giornali, ma una pessima strada per vendere buoni giornali.
Andrea Borello