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mercoledì, Maggio 15, 2024

    La “Madonna della Tenda” ai Musei Sabaudi

    La ormai troppo nota pandemia ha nuovamente sospeso numerose attività culturali e, tra queste, troviamo l’importante mostra “Sulle tracce di Raffaello nelle collezioni sabaude” – inaugurata lo scorso ottobre – che i Musei Reali torinesi (Palazzo Madama) hanno dedicato al Divin pittore, Raffaello Sanzio (Urbino 1483 – 1520) per celebrare i cinquecento anni dalla sua morte e per illustrare la sua influenza sull’arte piemontese. Tra le preziose opere spicca “La Madonna della tenda”, acquistata nel 1828 da Carlo Alberto come autografa di Raffaello e come suo unico capolavoro presente a Torino.
    Il dipinto, un olio su tela su supporto ligneo di poco più di 65 x 51 centimetri, può essere datato tra il 1513 e il 1514; prende il nome dalla tenda che chiude lo sfondo e lascia intravedere uno scorcio di cielo. La composizione vede in primo piano la Madonna, il Bambino e leggermente defilato san Giovannino; la Vergine è rappresentata di profilo e con il braccio destro tiene teneramente stretto a sé Gesù Bambino che getta lo sguardo in senso opposto a quello della Madre, in direzione di Giovannino. Dal dipinto emerge un intimo coinvolgimento dei personaggi, “un gioco” di sguardi che unitamente alla luce e al colore restituiscono un’atmosfera di armoniosa naturalezza e freschezza, tipica del maestro urbinate.
    L’opera è considerata una “delle straordinarie invenzioni mariane”, ma anche la variante di un altro capolavoro del Divin pittore la “Madonna della seggiola”: un modello di armonizzazione spontanea e naturale dei sentimenti.
    Il principe di Carignano Carlo Alberto acquistò l’opera da Angelo Boucheron – regio incisore e mercante di quadri – credendola anch’esso un originale di Raffaello, per dare lustro alla nuova Galleria Reale di Palazzo Madama, tanto da essere esposta in una sala dedicata interamente al Sanzio. Ma la paternità del dipinto venne ben presto messa in discussione, tanto che a fine Ottocento, alcuni studiosi ne modificarono l’attribuzione, riconducendo l’opera ad un artista di grande esperienza tecnica appartenente alla scuola raffaellesca, come Perin del Vaga o Giovan Francesco Penni. La tavola giunse in Piemonte intorno alla metà del Settecento come dono del cardinale delle Lanze alla contessa Piossasco Porporaro, passò poi ai Maffei di Boglio che lo cedettero al Boucheron.
    L’opera originale venne invece rintracciata nell’omonimo quadro conservato presso l’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera; il dipinto – di cui se ne ignora la committenza, ma è plausibile un legame con l’avvento del pontificato di Leone X – e già documentata a fine Cinquecento tra le raccolte del monastero dell’Escorial a Madrid, quindi passò in Francia, poi venduto a sir Thomas Baring e nel 1819 acquistato per conto di Ludovico di Baviera.
    Il fatto che la tavola cinquecentesca torinese non fosse un’opera autentica di Raffaello, la preservò da frequenti interventi di restauro, restituendoci quindi un dipinto con i segni del restauro ottocentesco pressoché intatti, magari con i colori un po’ appesantiti e i toni oscurati. L’intervento fu realizzato da Giuseppe Molteni (1800-1867, consulente del Louvre e del British Museum) considerato il “principe dei restauratori”, il più richiesto al tempo della Milano romantica.
    L’approfondita campagna diagnostica, le riflettografie ad infrarossi, l’analisi del dipinto e della tavolozza -lapislazzuli, frammenti di vetro, verderame alla base dei pigmenti- eseguite dal Centro Conservazione e Restauro di Venaria Reale, hanno permesso di analizzare il disegno celato dalla pellicola pittorica e di metterlo in relazione con quello originale. L’approfondita campagna diagnostica condotta in occasione della mostra propende per una realizzazione dell’opera torinese intorno al 1530- 1540 (dopo la morte di Raffaello) in una prestigiosa bottega fiorentina come quella di Andrea del Sarto. Dunque non una modesta copia, ma un’opera di alta qualità pittorica, realizzata con materiali di pregio, proprio in sostituzione dell’originale, forse venduto o perduto nel corso della sua ancora misteriosa storia.
    Giannamaria Nanà Villata

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