Penso che siano poche le persone che, amando anche solo superficialmente la musica, non sappiano che la Nona Sinfonia di Beethoven è una sinfonia che finisce con un pezzo cantato, il celebre “Inno alla Gioia”. In effetti la Nona ha una struttura talmente nuova, talmente anomala, da sfidare ogni tipo di confronto. Una vera antinomia storica. Una contraddizione in termini. A quella data non solo non c’erano mai state sinfonie che includessero brani cantati, ma anche dopo, per tanto tempo, non ce ne saranno: per trovare qualcosa di somigliante bisogna saltare l’800 e andare a Mahler.
Eppure il disegno iniziale non comprendeva una simile devianza. Durante parte del 1822 e per tutto il 1823 Beethoven stette immerso nel nuovo progetto sinfonico (la sinfonia era destinata a Londra, insieme a un’altra che non fu compiuta) con l’idea di creare una specie di compendio non solo di tutto il suo sinfonismo ma anche, si può dire, della sua stessa vita. I primi tre tempi gli erano usciti dalla penna senza troppi ripensamenti concettuali, tutto ciò che il drammatico registro di re minore poteva suggerire era entrato nella “trama sottaciuta”: un primo tempo di struttura imponente che dal caos informe fa uscire un’energia turbinosa, quasi uno strazio di potenza, e dove la forza morale tocca i vertici fin lì toccati soltanto nell’ “Eroica; segue, in perfetta contrapposizione, un Molto Vivace in funzione di Scherzo, effettivo gesto liberatorio tutto costruito su ritmi elettrici e esaltati; mentre nell’Adagio Molto e Cantabile un tema di pace quasi ultraterrena dialoga soavemente con le proprie emanazioni (chiamarle variazioni è limitativo) ed alternandosi ad un umanissimo Andante sviluppa un climax di dolce, quieto ripiegamento su di sè, come un cigno che chiuda le ali dopo d’aver tanto cantato.
Questo lo stato dell’arte. Ma ad una gara iniziata col dolore, proseguita nel ritmo, acquietata con la rassegnazione, quale Finale si poteva aggiungere che fosse significativo del pari? Rebus di ardua soluzione. Perché a fronte di tre movimenti di perfezione assoluta, il quarto avrebbe potuto (non sarebbe caso isolato) far calare la tensione e risultare, di fatto, minore a ciò che era preceduto.
A questo punto, se seguiamo i suoi quaderni di appunti, vediamo che Beethoven è prossimo ad andare in tilt. Molte erano le soluzioni che ruminava, ma trovava problematico scegliere quella giusta. Ipotizzava un quarto tempo che fosse preceduto da un recitativo strumentale per poi sfociare nel Finale vero e proprio, ed è quasi certo che avesse già pensato al brano da inserire: l’ Allegro Appassionato che sarebbe poi diventato il finale del Quartetto op.132. Ogni volta che mi capita di ascoltare questo pezzo quartettistico me lo immagino in veste sinfonica, e sento quanto grande e quanto bello avrebbe potuto essere come Finale della Nona. Infatti dopo un espressivissimo recitativo, il suo slancio in 3/4 come un valzer e la sua andatura ansiosamente febbrile hanno una pregnanza che può portare sia ad un “finale generico”, che al “finale ultimo” della vita di Beethoven.
Ma non andò così. Perché antichi pensieri, antichi entusiasmi si combattevano nella sua mente, tanto che alla fine, con incredibile giravolta, per Finale decise di rivolgersi alla parola e musicare alcune quartine di quella “Ode alla Gioia” di Schiller che aveva tanto amato da ragazzo restandogli negli anfratti del pensiero. A conferma del fatto che la Nona sinfonia è un racconto, dopo un tempestosissimo recitativo strumentale richiamò da capo i temi dei tre precedenti movimenti per poi introdurre il quarto tema, nella fattispecie una melodia semplice, lineare, ripetuta con progressiva magnificazione da pp a ff, fino all’irrompere imprevisto d’una voce umana che (testo di Beethoven!) invita gli amici a cantare dei canti più graditi e gioiosi. “Gioia!” esclama il coro alle sue spalle. E subito i quattro solisti si impossessano a turno della melodia e la lavorano immaginificamente. Questa specie di “sceneggiatura” si combinò molto bene cogli ampi squarci corali-strumentali del testo schilleriano dove sono espressi ideali di pace e fratellanza universale, e divenne il prodigioso finale che tutti conosciamo e di cui l’U.E. ha fatto il suo inno. Restò pendente il rischio che il genio strumentale dell’autore potesse uscire indebolito dalla ricerca di un linguaggio vocale in fondo non suo. Non dimentichiamoci del severo giudizio di Giuseppe Verdi: “…sublime nei primi tre tempi, pessima come fattura nell’ultima parte.”
Non sappiamo se alla fine questa soluzione soddisfacesse del tutto il compositore. È quasi certo che se avesse scritto una “decima” sarebbe stata senza coro. Ma questa mésalliance fra la musica eminentemente strumentale e il canto vocale segnò una svolta, perché trasmise al nuovo secolo il concetto che qualsiasi “forma prestabilita” poteva essere ribaltata o cambiata, se così richiedeva l’ispirazione.
A questo pensavo ieri sentendo annunciare che il prossimo 7 maggio si compiranno i duecento anni dalla prima esecuzione della Nona. Un evento mirabile di cui se volete parleremo prossimamente.
Il problematico Finale della Nona Sinfonia
L' “Inno alla Gioia” di Beethoven
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