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mercoledì, Ottobre 16, 2024

    I talenti degli ultimi

    Antonio Ligabue
    “Volpe con rapace”
    1959
    Olio su  tela

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    Talvolta non si trovano termini adatti per raccontare i pensieri ma si possono invece esprimere con efficacia i sentimenti attraverso l’arte: è il caso di coloro che hanno difficoltà a servirsi dei consueti canali comunicativi, che non riescono a utilizzare un’adeguata “tavolozza” di parole, uomini per cui non è semplice allinearsi alle convenzioni oppure che raramente incontrano chi sia pronto ad ascoltarli: è complicato infatti comprendere il doloroso caos che governa alcune vite.
    Antonio Ligabue (1899-1965) apparteneva alla schiera degli “ultimi”, degli incompresi, dei dileggiati, di coloro che per farsi sentire agiscono in maniera scomposta e necessitano di qualcuno che li affianchi nel cammino, li conduca per mano e coltivi i loro talenti.
    Nella mostra “Ligabue”, ideata da “Fondazione Augusto Agosta Tota per Antonio Ligabue”, curata da Giovanni Faccenda con catalogo pubblicato da BesideBooks e allestita presso la Società Promotrice delle Belle Arti di Torino, disegni, sculture e oltre settanta dipinti evidenziano la potenza espressiva di un autore dall’esistenza complessa, densa di sofferenza; l’artista tuttavia concepì opere dinamiche e fervide di cromie, create con mano sicura e colore materico, i cui soggetti, prevalentemente tratti dal mondo agreste o naturale, rispecchiano talora la realtà quotidiana nota a Ligabue, talaltra deleteri fremiti nell’animo del pittore.
    Successivamente agli anni Trenta -periodo caratterizzato dall’uso della sfumatura in paesaggi popolati da animali domestici oppure esotici- l’autore evolve verso una marcata purezza cromatica e sottolinea, altresì con gesti sottrattivi sulla superficie dipinta, lotte tra belve, azioni predatorie di felini e rapaci, finanche lupi che aggrediscono cavalli ed esseri umani (“Traversata della Siberia”).
    Gli animali e gli uomini raffigurati contribuiscono con intensi sguardi e atteggiamenti all’atmosfera delle scene, sia qualora prevalga la quiete (“Due cani da caccia”, “Ritorno dai campi”, “Cervi”) sia nell’acuirsi dello scontro (“Lotta di galli”, “Aquila che assale una volpe”, “Leone che assale due antilopi”) talvolta in contrasto con serene vedute sullo sfondo (“Volpe con rapace”).
    Parimenti cariche di “pathos” e tensione appaiono le sculture in bronzo -così l’autoritratto come la figurazione di fiere- dalle superfici attentamente modellate con guizzanti chiaroscuri.
    Attraverso la rappresentazione delle ferite che l’autore s’infliggeva sul volto, negli autoritratti dipinti emerge infine l’inquietudine che non abbandonò Ligabue fino al termine dell’esistenza. L’artista, nonostante fosse già apprezzato, concluse la vita nel ricovero di mendicità “Carri” di Gualtieri, forse con amici accanto, certamente in compagnia di fantasmi interiori; il pittore è icona dunque di quella parte dell’umanità da non lasciare in balìa di un funesto, predeterminato destino.
    Fabrizio De Andrè cantava: “questo ricordo non vi consoli / quando si muore, si muore soli” ma oggi, grazie alle opere dello stupefacente Ligabue, celebriamo con ammirazione l’artista che con la sua unicità seppe oltrepassare limiti e pregiudizi che spesso la società impone agli “ultimi”.

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