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sabato, Luglio 27, 2024

    Le origini del conflitto israelo-palestinese

    15Le origini del conflitto israelo-palestinese sono da ricercare, ben prima della fine della seconda guerra mondiale, nel fatto tangibile di una sola terra divisa tra due popoli che storicamente non hanno mai avuto un loro spazio fisico definito.
    Gli Ebrei rivendicano una terra dal 70 d.C., cioè dalla distruzione dell’ultimo tempio di Gerusalemme. Da allora ebbe inizio la cosiddetta diaspora, e gli Ebrei si dispersero prima in Europa e poi in tutto il resto del mondo.
    I Palestinesi, invece, sono una popolazione di origine araba ma non interamente musulmana, che si era stabilita nell’area, attraverso migrazioni a partire dal IV sec. d.C. e che nel corso dei secoli si era mescolata con altre etnie ma senza aver mai ricevuto un chiaro riconoscimento di nazione autonoma. Lo scontro iniziò quando, prima gli uni, poi gli altri, reclamarono il riconoscimento di questo status di nazione, ovvero di essere percepiti come un’unità per la loro lingua, le loro tradizioni e la loro storia. Il problema nacque perciò nel far coesistere due nazioni così diverse tra di loro e non riconosciute né da una parte né dall’altra.
    A partire dal 1919 in poi la Gran Bretagna ha amministrato gran parte dell’area mediorientale in nome dell’accordo Sykes-Picot, un accordo segreto siglato nel 1916 in pieno primo conflitto mondiale tra i ministri degli esteri inglese e francese, i quali decisero di spartirsi i territori dell’Impero ottomano. L’Arabia veniva lasciata fuori dall’accordo mentre negli altri territori venivano creati nuovi stati: il regno d’Iraq e il regno della Transgiordania, regni fantoccio sotto l’egemonia britannica e il Libano e la Siria sotto la tutela francese.
    Negli Anni Venti in Palestina assistiamo ad una massiccia immigrazione ebraica sospinta dal sionismo. Il sionismo è un’ideologia politica il cui nome deriva dal monte Sion, uno dei colli di Gerusalemme, luogo che riveste una profonda importanza nella tradizione religiosa ebraica, e consiste nella volontà di ridare agli ebrei una patria in terra. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si viene a formare una vera e propria coscienza nazionale ebraica grazie soprattutto al contributo di un giornalista ebreo-ungherese, Theodore Herzl, il quale fu particolarmente scosso dall’Affaire Dreyfus, ovvero dalla degradazione e dalla condanna del capitano ebreo dell’artiglieria francese Alfred Dreyfus, accusato falsamente con prove manomesse di alto tradimento e che provocò una campagna mai vista prima di odio antisemita.  Herzl è autore del manifesto del movimento sionista, nel quale ha teorizzato la nascita di una nazione ebraica che riunisse sotto di sé tutti gli Ebrei sparsi nel mondo. Oltre a questo avvenimento, anche ad oriente, nella Russia zarista, gli Ebrei furono perseguitati, in veri e propri pogrom, dalla polizia e accusati di essere i responsabili delle condizioni miserabili in cui verteva la popolazione. La polizia zarista era arrivata al punto di confezionare un documento falso, il “Protocollo dei saggi anziani di Sion”, nel quale si teorizzava il suprematismo ebraico, solo al fine di creare il casus belli ideale per giustificare i pogrom.
    In Palestina viveva ancora una piccola comunità ebraica locale che però, inizialmente, non vedeva di buon occhio questa immigrazione di massa. La situazione precipitò con la sconfitta dell’Impero ottomano al termine della prima guerra mondiale e la successiva spartizione dei territori che lo componevano. Questa forte migrazione ebraica provocò dei contraccolpi, sia verso lo stesso governo britannico che non era preparato ad accogliere e a organizzare tutti questi individui, sia verso la comunità araba che vedeva in questo flusso migratorio un’usurpazione di risorse e di territorio a loro discapito. E da lì che nascerà il futuro conflitto arabo israeliano. Tra gli Anni Venti e Trenta del Novecento si vedranno altri pogrom, addirittura in Palestina per opera del Gran Mufti di Gerusalemme Amin Al-Husseini, il quale provocò la sollevazione della popolazione araba contro gli Ebrei, e a farne le spese non furono tanto gli Ebrei europei immigrati ma i membri di quella piccola comunità ebraica locale preesistente. A questo punto i britannici cercarono di regolamentare questa migrazione disordinata, arrivando ad attuare perfino dei blocchi navali ma con scarso successo. Poi con la seconda guerra mondiale si aggiunse l’olocausto, e questo drammatico evento spinse gli stessi inglesi ad eliminare le limitazioni sull’immigrazione ebraica in Terra Santa.
    Dopo i pogrom degli anni Trenta gli ebrei si organizzarono in nuclei di autodifesa, fino a disporre di vere e proprie formazioni terroristiche (Haganah, Irgun, Banda Stern) di ispirazione ultranazionalista, che miravano al dominio assoluto su tutto il territorio. Vennero presi di mira con assalti e attentati, non solo i villaggi arabi, ma anche i presidi britannici, fino a far saltare in aria un’ala dell’hotel King David dove risiedeva la maggior parte dello stato maggiore del mandato britannico in Palestina. Allora gli Inglesi rimisero il mandato nelle mani delle Nazioni Unite, le quali dopo innumerevoli discussioni giunsero a una risoluzione che ufficialmente raccomandava la separazione della Palestina in due stati distinti, uno per gli Ebrei e uno per i Palestinesi. Si iniziò a parlare di comunità palestinese, che però non veniva riconosciuta insieme alle altre comunità arabe, quella egiziana, quella siriana, quella giordana o quella libanese. La risoluzione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite numero 181 del 29 novembre 1947 raccomandò perciò questa suddivisione in due del territorio, con Gerusalemme città libera. Ma già all’indomani della proclamazione dello stato di Israele si scatenò la prima guerra arabo israeliana, nella quale Israele, non ancora stato, fu attaccata dall’Egitto, dall’Iraq, dalla Siria, dal Libano e dal Regno di Transgiordania. Al termine del conflitto, nel 1949, ogni paese arabo si prese un pezzo del territorio di Israele, l’Egitto la Striscia di Gaza che avrebbe conservato fino al 1967, mentre il regno di Transgiordania si inglobò la Cisgiordania, la zona più fertile intorno al fiume Giordano. I territori che dovevano essere lasciati ai Palestinesi, che però erano privi di strutture e leader, vennero occupati da altri stati. Per cui fino agli Anni Sessanta i Palestinesi vissero come profughi, ospiti a mala pena tollerati, in terra propria e amministrata da altri paesi arabi.
    Bisogna arrivare agli accordi di Oslo del 1993, ben quarantasei anni dopo la risoluzione delle Nazioni Unite, perché ci siano le reali premesse per la fondazione di uno stato palestinese. Mentre Israele possedeva già una sua fisionomia di stato, con un governo, una parvenza di parlamento (Knesset) e delle strutture statali, lo stato palestinese mancava sia di strutture, sia soprattutto di una coscienza nazionale. Per anni il mantra dei Palestinesi è stato quello di riprendersi i territori sottratti da Israele senza però avere la benché minima idea di cosa significasse essere una nazione palestinese. Nel corso degli anni questo scontro si è inasprito e ha visto la crescita di formazioni militari ultranazionaliste in entrambi gli schieramenti.

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