Proseguendo nel mio trend di letture musicali, mi sono trovata fra le mani un altro libro che gradirei segnalare agli amatori:
il “Verdi a Parigi” di Paolo Isotta (Marsilio, 2020). Si tratta di un tomo ragguardevole – oltre 650 pagine – dove, con il consueto acume, il musicologo Isotta riesce ad approfondire e a far chiarezza su un aspetto non secondario della parabola artistica verdiana, un aspetto che spesso noi italiani siamo portati a sottovalutare o addirittura a obliterare, cioè l’influenza che il teatro francese ebbe su di lui.
Nei fatti l’idea che il nostro Genio nazionale abbia passato un numero non piccolo di anni in Francia ci ha sempre indispettiti, allora come oggi, e sempre ad ogni suo ritorno lo si accusava d’aver perso la vena italica e d’essersi “infranciosato”. In realtà Verdi amò la Francia, Parigi in ispecie, d’un amore continuo e intenso (cosa che non gli impedì di dirne tutto il male, stigmatizzandone la “blague” e lo “sciovinismo”). Aveva trentaquattro anni quando nel giugno 1847 per la prima volta mise piede a Parigi, diretto a Londra per darvi “I Masnadieri”. Lo precedeva la fama acquisita coi successi di “Nabucco” ed “Ernani”, ma in sostanza era un provinciale: brillante, applaudito, promettente, ma pur sempre un provinciale. Parigi avrebbe fatto di lui il primo compositore della sua epoca. Sulle prime Verdi tentò di mascherare l’amore per Parigi esibendo un certo grado di nonchalance: ma era una finta, tanto più che proprio lì aveva ritrovato la cantante Giuseppina Strepponi, ed il tenero che già c’era fra loro si era trasformato, grazie all’atmosfera libera e cosmopolita di Parigi, in vera e propria passione. Diventato per lei il suo “Mago”, il suo “Pasticcio”, e, nei momenti di birichinismo, il suo “brutto mostro indegno”, avrebbero cementato insieme una alleanza di vita per i successivi cinquant’anni. E sarà Giuseppina a dare a Verdi ripetizioni di francese (che poi giunse a parlare fluentemente) e ad aiutarlo a gestire l’ardua prosodia in occasione della trasformazione dei “Lombardi alla prima crociata” in “Jerusalem”, opera in francese commissionatagli dall’Opéra. È noto il fastidio che Verdi mostrava quando a teatro doveva ascoltare musica altrui, temendo in tal modo di perdere la propria originalità; ma i molti ascolti fatti in quel periodo non furono inutili o vani, anzi si mostrarono capaci di spingerlo verso una flessibilità nuova, una più stretta reciprocità fra declamato e arioso sull’arduo cammino dell’ “inventare il vero”. Niente più del confronto fra i “Lombardi” e questa “Jerusalem” rivela l’influsso subliminale che l’opera francese ebbe su di lui. Senza perdere nessuno dei propri pregi espressivi, ne uscì arricchito.
Era l’inizio di una nuova e formidabile espansione creativa e mentale promossa dalla varietà di contatti maturati nell’ambiente parigino. Criticava, è vero, il sistema del “grand-opéra” che includeva scene sfarzosissime e balletti; criticava il Teatro dell’Opéra e la sua orchestra poco malleabile, e lo chiamava con sprezzo “la grande boutique”; criticava gli obblighi frivoli, mondani e non artistici: e sbraitava con Du Locle, il suo librettista francese: “Io voglio l’entusiamo, che a voi manca! Io voglio l’arte in qualunque siasi sua manifestazione: non l’arrangement, l’artifizio, il sistema, che voi preferite!”; ma dopo di avere ben bene sbraitato, non aveva cuore di lasciare la Francia al suo destino: “Parigi è più bella di prima e i Francesi ancora più matti!” scrisse commosso nel 1873 quando tornò a visitare la capitale dopo i tremendi disastri della guerra coi prussiani e della Commune.
Oltre alle due opere scritte per la Francia e in francese – “I Vespri Siciliani” e “Don Carlos” – molte altre recano riferimenti al modo di sentire francese o si ambientano in Francia (una per tutti, “La Traviata”, dove fra l’altro Violetta definisce Parigi un “popoloso deserto”). Nel catalogo verdiano le fonti letterarie francofile sono tante: non solo il predetto Alexandre Dumas fils, o i più modesti Souvestre & Bourgeois autori di “Le Pasteur, ou l’Evangile et le Foyer” da cui derivò Stiffelio, ma soprattutto Victor Hugo, che gli diede i due spunti notevoli di “Ernani” e “Rigoletto”. In effetti più si considera l’opera verdiana nel suo insieme, più si trovano nessi col mondo francese, in un reticolo che include anche titoli come “Don Carlos”, che di fatto, con Schiller, apparterrebbe all’area tedesca, ma che venne al mondo fornito di uno squisito libretto francese. Ed è proprio con “Don Carlos” che l’autore attinse al momento più alto e più epico della sua carriera. Isotta, con mirabile sintesi, definisce quest’opera “la vanità della speranza e il trionfo del male”. Ed Eugenio Montale asserisce che in essa “Verdi ha trovato un colore tutto nuovo, la carie nera e profonda della Controriforma, e le circonvoluzioni ed i festoni del grande barocco.” Mi risulta difficile immaginare che tutto ciò avrebbe potuto giungergli senza l’esperienza cosmopolita di Parigi.
L’ultima volta che vedrà Parigi sarà nell’ottobre del 1894, la Tour Eiffel già alta e svettante…
Luisa Forlano