Durante quest’anno in cui si commemora il centenario pucciniano torneremo più volte a parlare di lui. E non sarà un sacrificio; tanto più di fronte al titolo che sta per giungere al Teatro Regio, e verso cui, lo confesso, nutro da sempre una particolare predilezione: “La Fanciulla del West”.
Subito, all’indomani della première di “Madama Butterfly” (1904), per Giacomo Puccini incominciò il tormento di trovare un nuovo soggetto musicabile. Fattosi cauto e di difficile contentatura, per un periodo interminabile di quattro anni cercò, accostò, scartabellò e lesse decine di drammi, per poi concludere che “per quanto abbia letto, mai mi sono commosso”. Passarono fra le sue mani i progetti per “Notre Dame de Paris” di Victor Hugo, che sulle prime sembrò infervorarlo tanto da volerci scrivere una “fuga gotica” (chissà cos’è?) e per il dramma “Margherita da Cortona”, che poi respinse in quanto “al Medioevo non ci credo più”. Fra le sue mani passarono Wilde, Mirbeau, Giacosa, Poe, Zola, Louys, Daudet, Gorkij, D’Annunzio… soggetti storici, epici, borghesi, simbolisti, persino erotici, come “Conchita”, per cui riteneva il pubblico non ancora pronto. “Anelo a qualcosa di grande, di nuovo, di emozionante e di non mai visto” diceva, e intanto tremava al pensiero del sempre ritornante rischio di cadere fra le grinfie di D’Annunzio, da cui lo separava non solo il modo di vedere le cose del mondo ma anche il ridondante frasario poetico. Tornò persino ad un antico progetto, quello della “Maria Antonietta” su cui Luigi Illica lavorava per lui da otto anni; ma alla fine cestinò anche la regina di Francia. “Credo che il libretto d’opera sia una pianta ormai esaurita sulla terra”, commentava tristemente.
A mio parere ritenere Puccini un compositore “verista” è un grave errore, una incomprensione del suo stile creativo. Si potrebbe se mai parlare di “realismo idealizzante”, dove la musica imita la vita (una vita teatrale) decorandola splendidamente di qualche riflesso realistico, ma tenendola sempre lontana dagli eccessi veristi. Ed ecco perché il suo istinto lo portò a considerare un dramma di terza o quarta categoria come “The Girl of the Golden West” di David Belasco (lo stesso autore di “Butterfly”). Lo andò a vedere a New York, ne criticò “il cattivo gusto e il vecchio gioco”, ma poi… lo prescelse!
Infatti, pur così rozzo e inattendibile, esso presentava una vicenda d’amore diversa dal solito, piena di risvolti patetici ideali e, soprattutto, con uno scioglimento assolutamente nuovo: il lieto fine. A chi pensasse che la storia di una giovane padrona di saloon che, tutta sola, deve vedersela col mondo duro e violento dei minatori e che riesce a dominarlo perfettamente, sia del tutto inverosimile, sì, è vero, l’ambiente e la protagonista sono assurdi, inautentici. Ma la “Fanciulla del West” non è un saggio di logica, non è un trattato di psicanalisi, è una favola, e come tale deve essere presa. Tutto gira su lei – Minnie – che tiene in mano il gioco raffinato e sublime dei leit-motive e sembra gonfiare lo spazio con una tenerezza struggente e insieme radiosa. È lei che muove le pedine, che prende le iniziative, che piange, ride, geme, palpita, che in una scena memorabile (non ce n’è un’altra di quel genere in tutto il teatro lirico) sfida lo sceriffo a una partita a poker per salvare la vita al suo Johnson, e, barando, vince.
Il libretto fu predisposto da due letterati di non alto valore, Zangarini e Civinini. La composizione procedette con buon ritmo a Torre del Lago, finché accadde lo spaventoso episodio del suicidio della giovane Doria Manfredi, ragazza di servizio in casa Puccini. Elvira Puccini l’aveva ferocemente quanto ingiustamente accusata d’avere una tresca con suo marito. Riconosciuta colpevole di diffamazione, essa fu condannata, e solo dopo enormi sforzi Puccini riuscì a ottenere che la famiglia Manfredi ritirasse la denuncia e accettasse un indennizzo. Furono mesi e mesi di eventi tormentosi, che accasciarono il compositore provocandogli un temporaneo declino creativo. Da cui però si riprese nel dicembre 1910 quando, al Metropolitan di New York, la “Fanciulla” ebbe una favolosa prima esecuzione con Enrico Caruso nella parte di Johnson e Arturo Toscanini alla direzione.
L’eccezionale valore di questa partitura sta nella novità e modernità dell’armonizzazione e strumentazione (un esempio tra i tanti, quel temino di valzer cantato con dei mmm-mmm che poi verrà ripreso, variato, esaltato, sublimato fino a toccare vette da paradiso). Di “Fanciulla” io ho un ricordo tutto mio: quando l’ascoltai alla radio per la prima volta (ero una quattordicenne ignorante e mi interessava perché amavo il Far West e le storie di Pecos Bill) scoprii una cosa banale fin lì a me ignota: che nell’opera esiste anche l’orchestra! Ed è su quell’orchestra cangiante, su quel manto di splendore lirico, che nell’ultima scena Minnie prende per mano il suo uomo e si allontana con lui in una dissolvenza cinematografica. Stillicidio di addii, fu detto. Non più le Manon, Mimì, Tosca, Butterfly, tutte crudelmente sacrificate sull’altare dell’amore. Ma un lieto fine, finalmente!
Minnie o il lieto fine
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