Nell’ottobre del 1819 Beethoven stava uscendo, anzi, era già uscito, dal lungo periodo di quasi cinque anni che aveva bloccato la sua creatività. La rinascita era avvenuta grazie al riavvicinamento al pianoforte con l’immensa sonata op.106 (che aprì la strada ad altre tre sorelle), inoltre già coltivava un progetto imponente come la Nona Sinfonia, e, soprattutto, per onorare il suo Arciduca Rodolfo che aveva deciso di entrare nei ranghi della Chiesa, si era immerso nella composizione di quella ambiziosa “Missa Solemnis” che è un po’ il compendio di tutta la musica sacra precedente. Studiava molto, Bach e Haendel erano sulla sua scrivania, si informava, si aggiornava, era immerso nell’ambiente culturale viennese, come risulta sfogliando i “Quaderni di Conversazione” di quegli anni. E proprio allora, fra tanti progetti grandiosi, gli capitò fra le mani un temino ridicolmente insulso, che, dopo l’iniziale rifiuto, cominciò a girargli per la testa ed a produrre un’infinità di idee nuove e singolari.
Cos’era successo? Che il compositore Anton Diabelli, da poco diventato proprietario della Casa Editrice Cappi, aveva proposto un proprio tema di valzer a tutti i musicisti perché ciascuno di loro ne facesse una variazione, da pubblicarsi poi insieme in un volume. Al tempo Vienna rigurgitava di musicisti, noti o poco noti, Hummel, Schubert, Moscheles, Czerny, Kalkbrenner, Mozart junior, il tredicenne Liszt, che aderirono vogliosi all’invito. Beethoven invece alzò le spalle irritato dalla banalità del tema. Aveva già in catalogo oltre cinquanta cicli di variazioni di alto livello (la prima sua opera pubblicata a dodici anni erano proprio delle variazioni) e la sua fama in quel campo era salda. Ma pian piano quel temino ripetitivo e meccanico (definito da lui “una toppa da ciabattino”) gli si infilò fra le cellule grigie. Cominciò ad analizzarlo ai raggi X. Capì che proprio quella struttura banale poteva dare la spinta a viaggi di fantasia inauditi. Iniziò a scrivere una variazione o due, poi tre o quattro, e nell’aprile del 1820 ne aveva già abbozzate ventitré. Ma a quel punto dovette accantonarle per oltre un anno e mezzo perché altre spinte fantastiche lo portavano alle sonate op.109-110-111 (che contengono esse pure immortali variazioni) ed al completamento della Missa Solemnis. Il lavoro sulle “Diabelli” potè riprendere solo nell’inverno del ‘22, quando ne aggiunse dieci completamente nuove, ideò la conclusione incorporando una fuga, e come finale dotò la straordinaria costruzione di un tenero minuetto d’addio. Aveva realizzato il suo lavoro pianistico più lungo e più complesso. Una specie di trionfo del do maggiore, rare essendo le incursioni in altre tonalità, a parte il do minore, ma malgrado l’inconsueta uniformità, Schoenberg scrisse che “quanto ad armonia, fra tutte le sue opere questa merita di essere chiamata la più avventurosa.” Stufo infine del continuo soffiargli sul collo di Diabelli, col titolo di “Trentatré variazioni su un valzer di Diabelli op.120” Beethoven gliele inviò per la pubblicazione, che avvenne nel giugno 1823.
Variazioni monumentali. Variazioni utopiche. Variazioni stratosferiche. Che dal punto di vista tecnico-formale esauriscono tutte le possibilità dell’arte di variare, e dal punto di vista emotivo rappresentano una sorta di universo in cui vengono man mano toccati tutti gli atteggiamenti spirituali del suo sofferto umanesimo.
A partire dalla prima variazione, un maestoso e autoritario esordio che pare troncare di netto la povertà del tema, di volta in volta Beethoven dà a ogni brano un aspetto specifico, peculiare, e può farlo perché più che variare la melodia ciò che varia è la struttura portante, il che, in mezzo a tanto eterogeneo procedere, gli permette di ottenere una coesione interna straordinaria. Anche quando ogni legame col valzerino di partenza sembra perdersi, a esempio nella variazione che imita “Notte e giorno faticar” dal Don Giovanni di Mozart, è pur sempre la struttura a essere parafrasata garantendo il legame col tema di partenza. Tanta tensione espressiva produce infinite immagini vivide e smaglianti. Alcune insistono sulla robustezza ritmica, altre sono di una leggerezza tenue e impalpabile, altre di grave e solenne immobilità, come sfingi; altre ancora viaggiano fra blandi accenni melodici e morbide movenze di danza. Spesso fa accenno alla musica barocca, a quel tempo oggetto del suo studio, come nella doppia fuga del penultimo brano; oppure guarda indietro verso il Settecento, il “bel tempo che fu”, come nel minuetto stilizzato e trasfigurato del finale (un musicologo lo chiamò “l’epilogo in cielo”). Ma prima di giungere a tale momento liberatorio, un gruppo di tre variazioni in do minore, in crescendo affannoso di fioriture quasi mistiche, sfocia nella variazione 31, toccando un clima di vero e vibrante pathos preromantico.
Salvo due serie di “bagatelle” (le op.119 e 126) questa fu l’ultima opera di Beethoven per pianoforte; la sua parola estrema per lo strumento che tanto aveva amato. Il suo testamento.
Variazioni stratosferiche
Nell’ottobre del 1819 Beethoven stava uscendo, anzi, era già uscito, dal lungo periodo di quasi cinque anni che aveva bloccato la sua creatività. Un gruppo di tre variazioni in do minore, in crescendo affannoso di fioriture quasi mistiche, sfocia nella variazione 31, toccando un clima di vero e vibrante pathos preromantico. questa fu l’ultima opera di Beethoven per pianoforte; la sua parola estrema per lo strumento che tanto aveva amato. Il suo testamento.