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martedì, Marzo 19, 2024

    In cima alla Nona Sinfonia –

    Si concludono le celebrazioni per i 250 anni di Beethoven

    Le prime sei sinfonie beethoveniane ebbero una linea di continuità consequenziale, l’una era il gradino di partenza per la successiva; ma dopo la Sesta ci fu un intervallo, non lungo, solo di quattro anni, che tuttavia servì a traghettare la creatività del compositore verso uno  scenario affatto nuovo.

    Io non darei troppo credito alla critica musicale che insiste a collegare la Settima Sinfonia in la maggiore col mondo della danza; è vero che di “apoteosi della danza” parlò Wagner, e tutti lo seguirono; ma in realtà, più che di danza, si tratta di straripante energia ritmica. Ideata nell’estate 1811 mentre passava le acque a Tepliz e completata con limature la primavera successiva, è un capolavoro di gioiosa libertà creativa che supera persino i condizionamenti posti da se stesso a sè. Lo si sente subito, nell’ampia introduzione tutta a scale ascendenti, che è il suo colore inconfondibile, e nel successivo Vivace, che per più di dieci minuti mantiene l’impeto dominante di giga. “Sortilegio sonoro”, fu detto. Una consumata sapienza è anche la cifra del successivo Allegretto. Originato da una matrice ritmica che pulsa persistente, si muove in un’atmosfera onirica cinerina e sovrappone due temi, che solo fuggevolmente si aprono al maggiore, per poi spegnersi sottovoce in un gioco sincopato di pizzicati: la fine di un sogno. Questo brano dolente fu – ed è tuttora – fra i più amati dal pubblico; alla prima esecuzione del 1813 venne bissato seduta stante. I due tempi successivi, l’impetuoso Scherzo col trio agreste (tema tratto, sembra, da un canto di chiesa slavo), e l’Allegro con brio tutto a rotta di collo, portano la vitalità ritmica a livelli da capogiro. Spesso mi sono chiesta come facciano gli orchestrali ad eseguirlo senza esserne travolti e stramazzare sui leggii. Il gradimento del pubblico fu sempre altissimo, anche se ci furono dei critici che la definirono “musica scritta da un ubriaco” e ne ritennero l’autore “pronto per il manicomio”.

    L’anno 1812 costituì nella vita di Beethoven una specie di spartiacque, in quanto pose le premesse per il suo ultimo e più serio tracollo sentimentale, di cui poco si sa, se non che ci fu; ma prima che ciò avvenisse, in uno stato d’animo di gaia speranzosità nacque la “piccola” Ottava Sinfonia in fa maggiore, che della Settima è una specie di aggraziata appendice. Però se l’Allegretto della Settima può a tutti gli effetti compararsi a un “tempo lento”, l’Allegretto dell’Ottava è decisamente un messaggio di humour effervescente e quasi marionettistico. Sembra che il suo insistito “ta-ta-ta-ta” fosse ispirato dal metronomo Mälzel, inventato in quei giorni. Gli altri tre tempi, il festoso Allegro iniziale, che rivela più di un momento di arguta dolcezza; il Minuetto da ancien régime, che incede pomposo come una parodia ma poi si scioglie in un trio intenerito; e il lungo Finale tutto a briglia sciolta, così bello a suonarsi come a cantarsi, completano questo lavoro spesso ingiustamente trascurato.

    Trascorsero più di dieci anni prima che Beethoven tornasse ad occuparsi di sinfonie, cioè di quella Nona che costituisce ancor oggi il suo titolo più “gettonato”. Lavoro in tutti i sensi  straordinario, scritto in regime di sordità totale, contribuì grandemente al processo di mitizzazione dell’autore. Alla Nona ho già accennato in un altro articolo, per cui qui dico soltanto che da quella specie di immane rappresentazione del caos che è il primo tempo (il cui sviluppo, da sé, costituisce un raggiungimento da sport estremo, come sarebbe scalare l’Everest senza bombole), attraverso l’estrosità mercuriale del Molto Vivace, passando per i “sovrumani silenzi e profondissima quiete” dell’Adagio, per giungere al variegato finale strumental-corale: che da tutto ciò, dicevo, scaturisca la gioia, e che sia un infelice amareggiato e deluso dalla vita a cantarla, questo resta un mistero della psiche umana. Ma non si deve scordare che fin dal 1815, in una lettera, lui vi aveva alluso: “Noi esseri finiti, con uno spirito infinito, siamo nati per avere insieme gioie e sofferenze; e si potrebbe quasi dire che i migliori di noi giungono alla gioia attraverso la sofferenza.”

    Tranne che in rare eccezioni di “brot-arbeit” (lavoro per il pane, come diceva lui sprezzante) ciò che usciva dalla mente di Beethoven non fu mai imposto, ma nato in lui, frutto di intima necessarietà. Persino quando accettò di farsi “pensionare” dai tre principi, Lobkowitz, Kinsky e l’Arciduca Rodolfo, che si tassarono per impedire che lasciasse Vienna, lo fece senza concedere alcunchè, al massimo (se gli girava giusta) qualche dedica… Nel corso di quest’anno che volge al termine avevamo sperato di poterlo celebrare nel suo 250°, ma il dannato CoronaVirus non ce l’ha consentito. Tuttavia nessuna celebrazione in pompa magna avrebbe potuto aggiungere qualcosa di nuovo e di più alla fama di questo gigante, che, di avi fiamminghi, nato renano, vissuto viennese, divenuto post mortem l’anima della nazione tedesca, coll’Inno alla Gioia è stato adottato dalla U.E ed è tornato ad essere ciò che era sempre stato: un cittadino europeo.

     

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    Luisa Forlano
    Luisa Forlano
    Luisa Camilla Forlano è nata a Boscomarengo, in provincia di Alessandria, e vive a Torino. Oltre all’amore per la Musica coltiva assiduamente quello per la Storia, in particolare per l’antichità classica, ma anche per i secoli a noi più vicini, quelli della rinascita della ragione. Ed è stato nel desiderio di far rivivere alcuni momenti storici cruciali che si è affacciata al mondo della narrativa: nel 2007 col suo primo romanzo “Un punto fra due eternità”, un inquietante amore ai tempi del Re Sole; e poi con “Come spie degli dèi” (2010), che conserva un aggancio ideale col precedente in quanto mette in scena le vicende dei lontani discendenti del protagonista del primo romanzo. In entrambe le narrazioni la scrupolosa ricostruzione storica costituisce il fil rouge da cui si dipanano appassionanti vicende umane, fra loro differenti, ma fortemente radicate nella realtà storica del momento.

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