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giovedì, Maggio 16, 2024

    I ragazzi di via Raffaelli  

    I ragazzi di via Raffaelli erano dei veri discoli.
    Anzi a essere sinceri erano dei veri monelli indisciplinati. Non amavano star seduti nei banchi di scuola a compitare e studiare.  La loro passione era quella di vagabondare per boschi, colline e torrenti. Senza dimenticare di mettere in atto, con una certa frequenza, scherzi non pericolosi ma un po’ nauseabondi.
    Monelli scavezzacollo lo erano certamente, ma in casa erano ubbidienti verso i genitori e adulti. Quando la mamma diceva:” Guarda che lo dico a tuo padre stasera.” Allora conveniva rigare dritto. La cinghia di cuoio era sempre pronta.
    Via Raffaelli era una strada abitata prevalentemente da operai e gente che si barcamenava per sopravvivere, più che per vivere.
    Pochi erano quelli che lavoravano in una qualche fabbrica o pastificio. Erano soprattutto muratori, piccoli artigiani che si arrangiavano a far di tutto, manovali, qualche contadino e piccoli commercianti che vivevano di traffici approssimativi. Tutto andava bene per tirare a campare e mettere in tavola un piatto di maccheroni.
    Del resto dovevano fare di necessità virtù. Si mangiavano soprattutto pasta, legumi, verdure, olive, ortaggi conservati preparati in casa e, occasionalmente, un po’ di carne. Ma poca, neh. Niente pesce, frutta, salumi e formaggi: roba da ricchi. I dolci? Col cannocchiale.
    Non mancava qualche signorotto che ostentava il suo benessere mai esagerato, a parte qualche famiglia che vantava quarti di nobiltà. Erano esponenti di una borghesia che era tale perché erano impiegati in enti dello Stato che garantiva prestigio e stipendio sicuro. Si diceva:” Quello sta bene perché il 27 va e viene.” Oppure l’agiatezza proveniva da antichi possedimenti terrieri.
    Era un mondo, come si diceva una volta, proletario o, per usare qualche termine da intellettuale organico, esponenti delle classi subalterne.
    Ma tutto sommato il clima era solidale e sereno.
    In questo contesto i ragazzi vivevano un’infanzia spensierata e libera. La strada era la base di partenza  dove si organizzavano le amate scorrerie che avevano come meta preferita la lussureggiante collina che incombeva, letteralmente, sulla strada.
    Questa collina non era, e non é, certamente alta, diciamo sui 250 metri. La sua presenza proprio a ridosso della strada la faceva apparire enorme. Il suo nome era, è, monte Muto. Per tutti era semplicemente “la selva”.  Faceva e fa parte della catena dei monti Lattari che si estendono da Cava dei Tirreni fino a Punta Campanella. La cima più alta è il Monte Faito che svetta a 1450 mt. Questi monti sono letteralmente coperti di boschi.
    Qui i ragazzi facevano, tutti i giorni, scorrerie a caccia di piccoli animali, giocavano alla guerra. Costruivano da sé i giocattoli necessari. Quando la frutta era matura ne approfittavano per sgraffignarne un po’. Sperando che il contadino non li sorprendesse, altrimenti erano dolori.
    Alcune grotte erano usate come covi in cui si rifugiavano per nascondersi o ripararsi da piogge improvvise. In questo caso non si rendevano conto, nella loro incoscienza giovanile, dei pericoli che correvano.
    Francesco faceva parte di questo gruppo di indisciplinati. I loro nomi erano quelli consueti: Tonino, Sebastiano, Antonio, Peppe, Ciro, Ciccio. Erano nomi ereditari. Si era ben lontani dai nomi esotici attuali.
    Quando tornavano dalla scuola mangiavano una “ marenna”, un bel pezzo di pane con olive o verdura e poi via su per “la selva” o in qualche torrente a caccia di rane e bisce.
    Mentre i ragazzi più grandicelli scorrazzavano in giro, i più piccoli e le femminucce frequentavano il convento delle suore salesiane che dimorava in quella strada. Le suore erano molto ben volute.
    La maggior parte degli abitanti di via Raffaelli era di sinistra e votava PCI, tuttavia il legame con le suore era saldo e fatto di stima reciproca. Quando le suore avevano bisogno di aiuto per lavori di manutenzione, gli uomini accorrevano prontamente.
    Se era forte il legame con le suore, altrettanto forte era quello che i ragazzi, nonostante la poca voglia di studiare, avevano con il loro insegnante: il maestro Gallo.
    La combriccola dei nostri spiriti liberi, diciamo così, faceva parte della classe di Gallo. Costui era un uomo severo ma che sapeva farsi accettare e rispettare dai ragazzi. La classe era formata solo da maschi: allora le classi erano rigidamente divise per sesso.
    Il maestro Gallo sapeva che la maggior parte dei suoi ragazzi non amava studiare. Allora aveva inventato un sistema per non ricorrere subito alla riga di legno con cui si davano colpi di punizione nei palmi delle mani. Allora funzionava così, era prassi consueta.
    Quando un ragazzo non aveva fatto i compiti, prima di passare alla riga e mettere un cattivo voto, foriero di ulteriori legnate a casa, lo interrogava chiamandolo alla lavagna. L’interrogazione verteva sempre su quelle materie che erano un vero incubo: tabelline e verbi.
    Se il ragazzo rispondeva giusto, bene. Altrimenti via libera alla riga. Ovviamente nessun genitore protestava, anzi. Di norma arrivava il supplemento. Se un ragazzo mostrava al maestro i compiti scritti pasticciati e lordati, allora partivano cori di sfottò. Con Gallo a dare il là.
    Nonostante il loro carattere ragazzi erano legati da un forte senso di solidarietà e di appartenenza.
    In tal senso c’è un episodio emblematico che tuttora ricordano.
    Occasionalmente in classe, 2 o 3 volte all’anno, faceva visita un giovane prete di nome don Rapacciuolo. Costui era persona garbata e gentile. Aveva l’abitudine di portare in dono ai ragazzi qualche dolciume o un piccolo giocattolo. Cose semplici ma per quei tempi era molto ed erano cose apprezzate dai ragazzi.
    Quella volta il don aveva con sé soltanto una confezione di mezze matite colorate da sei. Un lusso per quei ragazzi. Disse don Rapacciuolo:”Purtroppo ho soltanto una confezione, posso darla a uno soltanto. Non ho potuto fare di più.”
    I ragazzi risposero in coro:” Don li dia a Francesco, lui sa disegnare.” Fu così che Francesco si trovò tra le mani, per la prima volta, delle matite colorate con cui disegnare. Non stava nella pelle. Quei ragazzi dimostrarono un concetto solidaristico che troppi adulti oggi hanno smarrito. E i risultati si vedono.
    Questi erano i ragazzi di via Raffaelli. Più che indisciplinati erano spiriti liberi.
    Da adulti sono diventati  persone a modo e buoni padri di famiglia. Nessuno si è perso come vuole una certa vulgata.
    Quella strada era una vera scuola di vita. Le difficoltà e le privazioni invece di perderli li hanno cementati e messi in grado di affrontare la vita.
    Vittorio Mosca

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