L’appello di Liliana Segre, teso a ripristinare la traccia legata alla storia tra temi scritti proposti dall’esame di maturità, ha giustamente scatenato un ampio dibattito.
Il gioco delle parti ha poi preso il sopravvento e, passata la buriana, il silenzio è tornato sovrano.
Il discorso invece andrebbe fortemente ripreso e allargato.
Fino all’altro ieri, cioè fino a quando qualche utile sciocco non ha deciso di consegnare all’ignoranza il nostro Paese, vantavamo la miglior scuola materna ed elementare e la preparazione fornita dai nostri licei non aveva eguali.
Poi, ad ogni cambio di ministro – nessuno escluso – abbiamo assistito a un progressivo smontaggio del nostro impianto scolastico, mascherandolo con operazioni di facciata dal tono suadente, che in realtà hanno confezionato più pastrocchi che cambi epocali.
Da che anche noi abbiamo voluto trasformare alunni e genitori in sorta di clienti, a poco sono valsi gli straordinari sforzi fatti da una classe docente sotto pagata e sotto stimata, che compie giornalmente i salti mortali per costruirsi una certa qual credibilità e autorevolezza, sballottata tra una opprimente burocrazia e l’insipienza di questi tempi feroci.
I nuovi impianti programmatici procedono per sigle (PON, POF…) che, se fossero onomatopeiche, sembrerebbero più legate al Corrierino dei Piccoli o al Topolino di cara memoria; i dirigenti scolastici sono chiamati ad arrabattarsi diuturnamente alla ricerca di fondi per trovare la quadratura del cerchio: il sentore sempre più pronunciato è che ciò che è stato architettato da cervelli bacati nel corso degli ultimi trent’anni veda sempre meno pedagogia tra i banchi e sempre più mercato.
Lo studio della storia e della geografia è stato stravolto e i percorsi proposti ai ragazzi fan sì che solo in tarda età giungano a scoprire gli eventi del ‘900, avendo un’idea di com’è, fatto e finito, socialmente e politicamente, questo nostro mondo.
La non-cultura attuale, basata sull’istantaneità e sul presente, poi ammette poche repliche: a che serve riflettere, a che serve studiare?
Del resto, esimi esempi i media ce li mostrano quotidianamente: la preparazione conta poco: molto di più la capacità di far credere agli altri ciò che essi amano credere. Presentarsi davanti ad un video esprimendo concetti puerili e gretti viene visto non già come un marchio indelebile di totale ignoranza, quanto piuttosto come un segnale di profonda autenticità: “dire pane al pane”, magari condendolo con una frase ad effetto e greve, lancia nelle masse un credito di credibilità.
Chi si presenta argomentando e articolando viene visto come pervaso da evidente falsità. C’è un’onda di intolleranza che sta sfociando in violenza, una violenza che sale nei confronti dell’altro, semplicemente in quanto tale. Siamo oltre le prove tecniche di razzismo e qualcuno è tornato colpevole solo per il fatto d’essere nato in un certo modo e in un certo luogo.
La risposta non è nel vento, sta nella voglia e nella capacità di educare un popolo, ma a chi può fare gioco in questo momento una serie di individui fortemente pensanti? Occorre contrapporsi e, visto che la buona educazione pare diventata eversiva, occorre praticarla. Così come tornare a spiegare ai ragazzi.
Studiare male, non approfondire sfocia irrimediabilmente nel non conoscere chi sei e da dove vieni, nel non avere indirizzi e direzioni da prendere: sei costretto a vivere di istanti e all’istante.
Nelle parole di Liliana Segre c’è un appello che va ben oltre quello di ripristinare il tema storico: è un invito a resistere. Occorre essere consci che ciò che sta succedendo non è per caso. Ma, come ha detto recentemente Roberto Saviano, se conosci non ti fregano.