Probabilmente, molto probabilmente, quando e se avrete la compiacenza di leggere queste righe, la sorte di due milioni di disgraziati schiacciati nell’area più meridionale della Striscia di Gaza si sarà decisa e compiuta, come quella della più parte degli ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre scorso.
L’appello sempre più pressante – “Restiamo umani” – riceve consensi unanimi ma sempre più scarsa attenzione da chi dovrebbe e potrebbe: al momento in cui scrivo, Al Sisi, il rais egiziano, ha blindato la frontiera per evitare che gli sfollati a Rafah trovino una rischiosa via di fuga, mentre Netanyahu, da un lato, ha preparato un piano per spingere la stessa povera gente a una deportazione verso nord e dall’altra ha dato ordine di progettare un’incursione militare in quelle terre dove di inumano c’è molto e di umano è rimasto nulla.
Scrivere d’altro sembra quasi un delitto, perché certe cose devono essere dette anche in questo sozzo periodo di “politicamente corretto”, un periodo che in tema di scorrettezze e sconcezze può rivaleggiare con uno qualsiasi dei periodi più cupi della storia umana.
Basta provare a dirle certe cose per sentire riecheggiare un motto tanto caro al Ventennio: “ Qui non si parla di politica”. Come se fosse possibile ignorare che ogni atto è per sua natura politico. Prendere posizione per dire che ogni cosa (o-g-n-i/c-os-a) accaduta in Medio Oriente è un’infamia, equivale non già a dar vita a discorsi e iniziative di pace, quanto al vedersi tacciati di settarismo, di incapacità di comprendere il reale stato delle cose.
Ghali, uno che ho sempre ascoltato distrattamente e con troppa supponenza, dal palco di Sanremo ci ha impartito due grandi lezioni: cosa c’è di malato nell’invocare lo stop alla barbarie, nel provare a salvare innocenti e, almeno, professarlo o dirlo? E l’ha detto da italiano vero, perché pur di ascendenza tunisina, lui qui è nato e qui si sente a casa e ha patria. Qui sa di essere in una nazione che contempla ancora la libertà d’espressione e che dovrebbe essere lieta di accogliere pensieri ecumenici.
Ma da un po’ di tempo pare che il vento stia cambiando. Libertà d’espressione? Meglio se non ci si esprime. Libertà di stampa? Giusto, ci vuole, a patto che sia auspicabilmente compiacente, che non dia troppo fastidio.
Se possibile, meglio che si trasformi in fiancheggiatrice più che in testimone.
Sarà che il mio pensiero è inquinato dal fatto che uno dei più grossi complimenti mai ricevuti me lo fecero indirettamente nel corso dell’ultima campagna elettorale nostrana, quando una delle fazioni in lizza negò un pezzo a questo giornale perché “non si era allineato”, ma continuo a pensare che sia grave non comprendere la profonda funzione sociale che esercita l’informazione.
Se un certo potere non fosse accecato dalla voglia di avere ancora più potere, capirebbe che la coscienza critica è fulcro e lievito d’una corretta attività politica.
Pare però, e sempre più spesso, che s’intenda procedere da soli e che non si voglia intendere il messaggio che viene da uno dei podcast più seguiti, quello di Luca Bizzarri che l’ha voluto intitolare “ Non hanno un amico…”: per dire, ma chi comanda, attorno ha solo gente compiacente e non ha mai uno che, standogli davvero accanto, abbia la forza di dirgli che sta facendo una cretinata?
Per tanto fastidioso possa essere, fino a quando questa Costituzione sarà in atto, corre l’obbligo di continuare a dire con onestà e senza reticenze.
All’unico vero padrone: il lettore, come ben diceva Montanelli. Per statuto e dignità.
Elis Calegari
Non hanno un amico
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