Ci vuole una buona dose di coraggio e incoscienza per ipotizzare un’idea di futuro.
Eppure, bisogna. Anzi, si deve.
Certo, lo scacchiere internazionale è tremendo; ciò che propone ogni giorno la nuova geo-politica non autorizza a farlo. A volte sembra d’essere sulla soglia d’una polveriera strapiena nella quale si stia facendo largo, sgomitando, un artificiere fai-da-te, recante una bella torcia accesa in mano. Non hanno torto quelli che ritengono che si stia riproponendo ciò che già avvenne nella primavera del 1914, quando bastò l’attentato a un arciduca austriaco in una lontana città della Bosnia per regalarci la prima guerra mondiale e poi porre basi destabilizzanti per rituffarci, dopo soli vent’anni, in un abisso ancora peggiore.
In questo momento tutto ci sta giocando contro. L’Europa postcolonialista si sta decomponendo rapidamente, tra l’incapacità di trovare una vera, forte e valida unione e la stolida arroganza di chi si crede ancora protagonista e non sa d’essere che una comparsa asservita alla bisogna.
Sta emergendo sempre più forte e potente la presenza di quello che i politologi definiscono il Sud Globale, quell’entità spuria composta sia da paesi in forte sviluppo che da quelli che rappresentano il terzo mondo. Un’entità che per troppo tempo noi occidentali abbiamo giudicato senza pedigree, buona da trattarsi come il ripostiglio di casa, alla quale mancavano la nostra superiore conoscenza e la nostra supremazia nel saper fare, e nella quale abbiamo dislocato, sfruttando, la nostra voglia di saper far fare. Nel breve volgere di alcuni decenni molto Sud Globale ha appreso il nostro know-how talmente bene da non aver più bisogno di noi, tanto da viverci come un fastidio, del quale disfarsi prima possibile.
Si veda per conferma quanto capita in un qualsiasi focolaio di conflitto: Kosovo, Gaza, Ucraina o Taiwan che sia, se da una parte l’Occidente si schiera, immediatamente dall’altra avremo Cina, Russia, un bel po’ di mondo arabo a contrastarci, con l’aggiunta, all’uopo, di India e qualcun altro.
Che fare? Fermo restando che non si può ignorare il contesto, purtuttavia occorre andare avanti, sapendo chi siamo e dove vogliamo arrivare. Insomma, occorre una visione.
Se qualche beota ipotizza che l’unico futuro di Torino e per Torino stia nel vaticinare una fusione con Milano, buttandoci tra le braccia dell’unica vera nostra metropoli di caratura internazionale, nella speranza che i meneghini ci salvino, perdurando la nostra incapacità a riconvertirci da città fordista a città tesa verso il terziario avanzato, stiamo freschi. Per fortuna, com’è successo recentemente alla “Nuvola” dei Lavazza, c’è chi prova a progettare la Torino del 2050, con concrete prospettive di vita autonoma e propria, nel solco che da sempre ci appartiene: siamo stati e potremo continuare a essere la città culla dell’innovazione. Il meglio, dalla metà dell’800 in poi, l’abbiamo inventato o prodotto qui. I primi a doversene convincersene siamo proprio noi.
Anche Caselle deve mutare modo di ragionare. Abbiamo perso e stiamo perdendo luoghi identitari e non li stiamo sostituendo. A ben vedere l’unica grande, positiva realtà è quella creata dal “Cammino delle Valli”, nata dalla forza visionaria d’un singolo, Beppe Lianza, che ha cercato di vedere che cosa ci fosse oltre il consueto. Oltre il consueto c’è ancora tanto, basta avere voglia di provare a cercarlo. È tempo che si cerchi unità d’intenti, smettendola di sperare di trovarla in stupidi post nella faida dei social.
Anzi, si deve
Ci vuole una buona dose di coraggio e incoscienza per ipotizzare un'idea di futuro. Eppure, bisogna. Anzi, si deve.