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venerdì, Dicembre 6, 2024

    Se l’è cercata!

    Quotidianamente la cronaca ci aggiorna del crescente numero di vittime di violenze, per lo più donne. Nonostante le informazione e gli interventi di prevenzione, gli stereotipi e i pregiudizi sul fenomeno sono ancora troppi.

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    Le vittime, oltre a subire le violenze, a volte sono colpevolizzate per essersi messe nei guai! Purtroppo siamo ancora intrisi di una mentalità vecchio stampo, attualmente tanto presente nelle famiglie. È ancora radicata la convinzione che non bisogna andarsela a cercare, specie se si è donna, e che bisogna essere in grado di difendersi, di sbrogliarsela da soli. Cercherò di spiegarmi meglio.

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    I casi più rappresentativi di questo fenomeno sono quelli di stupri, tanto che dall’inglese è stata coniata l’espressione victim blaming, cioè la colpevolizzazione della vittima. Commenti tipo: “se l’è cercata”, “voleva anche lei!”, “non ha fatto nulla per difendersi”, sono sulla bocca di molti, uomini, ma purtroppo anche donne, che riescono a essere giudicanti finché non tocca a loro… Il problema grande è che questi commenti confondono le vittime e aumentano il loro dolore, il loro senso di essere difettose ed inadeguate per la vita. Ho trattato pazienti a cui è accaduto questo: dopo aver subito soprusi, anche non sessuali, sono state non credute o sminuite, a volte addirittura accusate. La reazione che hanno avuto è stata inevitabile: oltre a non riuscire a superare il trauma, hanno forti crolli dell’autostima e cadono in depressione. Uno psicologo per aiutare queste persone, deve fare un lavoro di “rieducazione” per insegnare che una vittima non è una colpevole, e che oltre ad essere vittima di un carnefice si è vittime di una società non pronta ad accettare che gli esseri umani possono essere davvero molto crudeli.

    Ricordiamoci che le vittime si ammalano e possono addirittura suicidarsi, più per la gogna mediatica a sui sono sottoposte, per non essere credute e accusate, che non per la violenza subita.

    Durante un percorso di terapia, il paziente migliora quando si sente capito dal terapeuta ma soprattutto quando si sente dire che ciò che ha subito non è giusto ed immeritato. Le vittime si stupiscono di queste considerazioni, perché è la prima volta che se le sentono dire da qualcuno. Uno psicoterapeuta spiega alla vittima che ci sono degli antichi meccanismi di difesa, che le persone mettono in atto, quando si sentono in estremo pericolo: si bloccano, si congelano, si immobilizzano, possono svenire oppure offuscare la loro mente per non vedere e sentire ciò che sta loro accadendo. Questo è un meccanismo di difesa che abbiamo in comune con molte specie animali: quando ci sentiamo in pericolo di vita non reagiamo più e ci fingiamo morti, quel che deve capitarci lo lasciamo accadere… Purtroppo questo meccanismo di difesa, la cui esistenza è scientificamente provata, un tempo non era preso in considerazione dai giudici durante i processi per stupro che, dopo aver ritraumatizzato le vittime chiedendo loro di raccontare i dettagli più raccapriccianti, sostenevano che la vittima avesse una sua responsabilità per non esserci difesa con le unghie e con i denti, per aver accettato senza opporsi di seguire il suo aggressore, per non avere chiesto aiuto…

    Ci sono persone che arrivano in terapia con grandi sofferenze, hanno sintomi importanti di ansia, non hanno più voglia di vivere, ma non capiscono il motivo. In realtà stanno sopportando situazioni di vita stressanti, sia psicologicamente e a volte mentalmente, senza capirlo. Provengono da una cultura dove tutto è concesso, specie in famiglia. Ricevono amore con modalità piuttosto discutibili, vengono confuse e fatte sentire in colpa se si ribellano. Per la prima volta un terapeuta fa notare che ciò che stanno vivendo si chiama “violenza”.

    La tendenza dello sminuire la vittima e addirittura colpevolizzarla, è presente in molti tipi di soprusi, non solo nella violenza di genere. Ad esempio, lo posso riscontrare spesso nei casi di bullismo, di cui si parla molto ma nella pratica non sempre vengono individuati e gestiti così bene. È ancora opinione troppo diffusa che il minore che subisce da un gruppo di coetanei sia un bambino “sbagliato”. Commenti da parte degli adulti del tipo: “ma queste cose sono sempre accadute a scuola!”, “lui non sa proprio difendersi”, “è lui che se la cerca”, “è lei che non è capace di avere degli amici!”, non sono così rari.

    Gli psicologi in questi anni stanno facendo importanti progetti di informazione, educazione, prevenzione, aiutati ovviamente da tante altre figure professionali, dalle ex vittime, dagli attivisti. Sono fiduciosa nel successo di tutta questa operazione inerente il cambiare la mentalità delle persone, dopo secoli in cui la si pensava diversamente. Sono consapevole però che i tempi sono lunghi, forse sarà necessaria la collaborazione di più generazioni, ma penso che ce la faremo un po’ per volta a vivere in un mondo più inclusivo e soprattutto protettivo dei più deboli. Qualcosa si sta muovendo…

    www.psicoborgaro.it

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