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martedì, Marzo 19, 2024

    Dall’orecchio assoluto al silenzio assoluto

     

    La rara capacità di riconoscere all’istante le note musicali, persino scorporate dagli accordi – il cosiddetto “orecchio assoluto” posseduto da musicisti come Bach, Mozart, Beethoven – risiede in una caratteristica specifica del cervello. Distinguere l’altezza di un suono (cioè la sua frequenza) senza l’ausilio di uno strumento di riferimento resta una dote che non si impara: o la si ha o non la si ha.

    Negli anni 1801-02 la tragedia acquattata nella vita di Beethoven uscì allo scoperto. Per la prima volta in una lettera all’amico Wegeler confessò di riscontrare perdite dell’udito “da circa sei anni”: l’inizio della malattia può quindi situarsi nel 1796 quando aveva ventisei anni e la sonata “Patetica” in do minore op.13 segnerebbe l’inizio del calvario. A ventotto anni i disturbi peggiorarono sotto forma di continui fischi e ronzii, prima all’orecchio sinistro, poi al destro: “Sento appena chi parla a bassa voce… sento il suono non le parole… se mi trovo più lontano, non sento più i suoni acuti degli strumenti e delle voci.” E all’amico Amenda: “Il tuo Beethoven vive terribilmente infelice in lotta con la natura e col Creatore… e già più volte ho bestemmiato contro di Lui…”

    In questo stato d’animo di grave turbamento lascia la città e si rifugia a Heiligenstadt, sobborgo di Vienna; affitta una casupola rustica presso una macchia di faggi, mangia all’osteria, gira per i boschi come un eremita, si tormenta e si dispera di fronte alla “debolezza di un senso che un tempo possedevo perfetto al sommo grado, di una perfezione come pochi della mia professione hanno o hanno mai avuto.”

    In quei giorni scrisse per sé e per i suoi fratelli una lettera riassuntiva, il cosiddetto “testamento di Heiligenstadt”, a giustificare i suoi sbalzi d’umore, dove ammette che “poco mancò che io stesso non mettessi fine ai miei giorni”, ma anche che “mi sembrava impossibile lasciare il mondo prima d’avere compiuto tutto ciò per cui mi sentivo destinato.” Rinunciò a morire per spirito di servizio; per essere di esempio, come disse lui stesso, a tutti gli infelici che, vedendo la sua forza di lotta, avrebbero potuto essi pure ricavarne forza di lotta. E proprio mentre le sue capacità creative si dilatavano in modo strepitoso (basta scorrere i numeri del suo catalogo in quegli anni!) accettò che l’ala nera di una punizione peggiore della morte calasse su di lui.

    Non si trattava solo di perdere l’orecchio assoluto, ma di perdere l’orecchio tout court. Davanti a sé aveva una quindicina d’anni di continui inesorabili peggioramenti prima che calasse il silenzio totale. Impossibile dirigere, impossibile suonare in pubblico, impossibile riscontrare il “pensato” col “reale”. Ma ancor più che dal punto di vista professionale, a pagarne il peso fu la sua vita di relazione, che si fece difficile, scissa, aspra, spesso contradditoria. Lo capì Goethe durante il breve incontro del 1812, in cui disse: “Certo non ha torto di trovare il mondo detestabile, ma d’altro canto è da scusarsi e da compiangersi molto, giacchè l’udito lo abbandona, il che forse reca meno danno alla parte musicale dell’indole sua che non a quella sociale.”

    Alla grave crisi del 1802 seguirono anni eroici di reazione, in cui si impegnò con tutto se stesso a combattere contro il destino: “Voglio afferrare il mio destino alla gola e voglio ben vedere se gli riuscirà di piegarmi!”. Non gli riuscì di piegarlo. E la lotta non fu sterile, visto che gli portò in dono pathos incandescente, dolcezze nirvaniche, energia morale solidissima, al punto di riuscire a scrivere capolavori come la Nona Sinfonia, le ultime sonate per pianoforte o gli ultimi quartetti perfino nell’isolamento fonico più assoluto. Quasi quattrocento “quaderni di conversazione”, espediente con cui si teneva in contatto con la realtà circostante nell’ultimo decennio di vita, testimoniano i suoi rapporti con amici e visitatori, che, scrivendogli, cercavano di filtrare un po’ di sostegno umano nel suo isolamento.

    Da tutta l’immensa letteratura al riguardo (il problema della sordità di Beethoven è stato voltato e rivoltato sotto tutti gli aspetti, medici, fisici, psichici, umani) è emerso almeno un dato di base, che non fu una semplice otosclerosi, ma un’affezione al nervo acustico che pian piano ne determinò l’atrofia (dettagli confermati dall’autopsia): a questa severa patologia forse nemmeno la medicina attuale troverebbe rimedio. In genere  si è propensi a vederne la radice in qualche tara famigliare ereditaria. È vero che la retorica si è impadronita di questa tragedia e ne ha fatto la tragedia per antonomasia; ma per quanto si voglia minimizzare resta difficile farlo in una situazione come quella che si andò a creare. Immaginare il dramma di un musicista – e di quale musicista – che vede giorno dopo giorno avanzare il fantasma della sordità fino a giungere al silenzio assoluto, è al di sopra delle parole che si pensa di poter usare per descriverlo.

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    Luisa Forlano
    Luisa Forlano
    Luisa Camilla Forlano è nata a Boscomarengo, in provincia di Alessandria, e vive a Torino. Oltre all’amore per la Musica coltiva assiduamente quello per la Storia, in particolare per l’antichità classica, ma anche per i secoli a noi più vicini, quelli della rinascita della ragione. Ed è stato nel desiderio di far rivivere alcuni momenti storici cruciali che si è affacciata al mondo della narrativa: nel 2007 col suo primo romanzo “Un punto fra due eternità”, un inquietante amore ai tempi del Re Sole; e poi con “Come spie degli dèi” (2010), che conserva un aggancio ideale col precedente in quanto mette in scena le vicende dei lontani discendenti del protagonista del primo romanzo. In entrambe le narrazioni la scrupolosa ricostruzione storica costituisce il fil rouge da cui si dipanano appassionanti vicende umane, fra loro differenti, ma fortemente radicate nella realtà storica del momento.

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