“25 Luglio 1598 – Il sindaco di Caselle Gorrino informa il Consiglio che si è scoperto, nel luogo di Rivoli, il male contagioso e ordina di intensificare la guardia.”
“2 Agosto 1598 – Si ha notizia che nel luogo di Rivoli le cose vanno peggiorando e già il morbo è ad Alpignano. Si facciano garitte alle porte.”
“9 Agosto 1598 – Dieci paesi attorno a Rivoli sono fortemente contagiati e isolati, tra questi Druento e Altessano.”
“28 Agosto 1598 – Mons. Ill.mo Sig. Nostro il Marchese informa che la peste si sta allargando e dice di pregare la Divina Maestà e chiedere perdono dei peccati, fare buona guardia, che si è scoperta la peste nei paesi di Grosso e Mathi.”
Quello che ho tratto dalla pubblicazione che Don Miniotti e Mentin Novero diedero alle stampe nel 1972 vi ricorda qualcosa?
Stiamo vivendo una sovrapposizione con ciò che vissero i nostri antenati? Per fortuna nostra le storie non sono combacianti, visto che la peste lasciò, e a più riprese, vivi solo una manciata di nostri conterranei, tuttavia una similitudine c’è: come loro non abbiamo certezza di cosa ci riserverà il domani e d’improvviso ci scopriamo vulnerabili. Fragili.
Noi che viviamo in un tempo perennemente coniugato al modo indicativo, convinti che tutto sia infinito e determinato, di colpo ci troviamo vittime di qualcosa di non preventivato e scopriamo di non avere armi per contrastare ciò che è venuto a turbarci. Triste scoprire che non siamo moralmente attrezzati per fronteggiare la bisogna.
La cultura che s’è fatta strada da qualche decennio è legata al presente, all’istantaneità: il passato conta poco e il futuro era ieri, ciò che conta è qui e adesso. La globalità in cui ci hanno cacciati ci ha convinto che nulla ci possa essere negato, che tutto sia raggiungibile: ora.
Avendo perso una dote fondamentale come la pazienza, dote che ci apparteneva sino a che gli anni non sono diventati veloci, troppo veloci, scopriamo la nostra friabilità.
Game over? Sì d’accordo, ma poi si riparte subito con una partita nuova… Invece per una volta non è così, siamo chiamati a vivere in un tempo sospeso, dove non si può far altro che essere pazienti.
Non è facile, visto che per noi aspettare è diventato un termine obsoleto e negativo.
Da quant’è che viviamo in una sorta di eterno presente, dove le cose accadono nel tempo brevissimo dell’adesso? Le nostre giornate sono piene di appuntamenti irrinunciabili, incontri, scadenze… E ora che ci aspetta una stagione di attesa senza certezze, non sappiamo più raccapezzarci.
Viviamo come un’onta, come un affronto la normalità; viviamo non senza fastidio le prescrizioni mediche e il rispetto delle norme e delle ordinanze, come se fossero la negazione della nostra libertà.
Ma dovremo farcene una ragione, obtorto collo: con ogni probabilità, vista la diffusione dell’epidemia, saremo obbligati alla pazienza, perché non ci sarà data altra scelta. Soli con la nostra scoperta fragilità, a meno di non volerci confinare nella rassegnazione nel fatalismo, dovremo trovare, come sempre, risorse nel profondo.
Questa circostanza potrebbe indurci in un’altra cosa che da tempo non ci appartiene più: la riflessione.
Riflessione di quanto di inutile e superfluo alberghi nelle nostre giornate, tanto da farcelo scambiare per indispensabile; riflessione su scale di priorità diverse e possibili, che vedano e prevedano il riposizionamento di legami e affetti.
Riuscissimo a modificare il punto di vista, riuscissimo a capire che per troppo abbiamo scambiato il “ben-essere” con il “ben-avere” forse riusciremmo a riappropriarci di vite che da tempo non son più nostre.
L’orrido coronavirus reca incredibilmente con sé, nelle pieghe, anche delle cose positive. Dobbiamo prepararci e scoprirle, perché sarà lunga e non c’è alternativa.