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lunedì, Maggio 13, 2024

    Roma 1870: tra capitale spirituale e di stato

    Con la presa di Roma che passò alla storia con la celebre breccia di Porta Pia il 20 settembre 1870 venne portata a termine l’Unità d’Italia. Esattamente centocinquanta anni fa con l’annessione di Roma al nascente stato italiano si sancì anche la fine dello Stato Pontificio e del potere temporale del Papato che durava da più di mille anni.

    L’8 settembre il Re d’Italia Vittorio Emanuele II aveva inviato una lettera a Papa Pio IX richiedendo di far entrare l’esercito regio a Roma per ragioni di sicurezza. Due giorni dopo le truppe composte da 50.000 soldati entrarono nello Stato della Chiesa ed attesero invano per tre giorni la dichiarazione della resa. La mattina del 20 settembre il generale Cadorna fece scagliare l’artiglieria contro le mura della città. Il 2 ottobre fu indetto il plebiscito che stabilì definitivamente l’annessione di Roma al Regno d’Italia.

    La questione romana, ovvero la controversia tra la Santa Sede e il movimento nazionale italiano sul ruolo di Roma ha origini lontane. La Repubblica Romana di Giuseppe Mazzini nel 1848 era stato un primo tentativo di assegnare a Roma una sovranità alternativa a quella del Papato. Fallito questo esperimento politico, la questione si ripresentò all’indomani delle annessioni del 1859-60 che portarono alla costituzione dello stato italiano. Pio IX, sotto la protezione dall’imperatore francese Napoleone III, si oppose con veemenza alla volontà di Cavour ad una soluzione pacifica del conflitto. Nel 1864, con la Convezione di settembre, il governo italiano abbandonò ogni pretesa su Roma, rinuncia confermata dal trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Solo con la sconfitta francese a Sedan nel 1870 durante la guerra franco-prussiana la situazione volse a favore del governo italiano. L’anno successivo alla presa di Roma corte e governo si trasferirono nella città.

    Il 13 maggio 1871 fu approvata dal governo italiano la Legge delle Guarentigie con l’obiettivo di regolare i rapporti tra il Regno d’Italia e lo Stato Vaticano. La legge attribuiva al Papa la cittadinanza italiana ma anche alcuni benefici determinati dalla sua posizione di capo spirituale della Chiesa. Aveva, perciò, diritto ad avere una propria scorta armata e alcuni palazzi e monumenti facenti parte dei propri numerosi possedimenti erano esenti dalle leggi italiane come ad esempio Castel Gandolfo. Il Papa avrebbe anche ricevuto un contributo economico finalizzato al proprio sostentamento. La legge inoltre garantiva l’assoluta indipendenza reciproca del Regno e del Papa. La risposta della Chiesa non si fece attendere, fu netta e negativa. Pio IX, che dalla Presa di Roma si barricò all’interno del Vaticano e non ne uscì più per protesta contro il Regno (cosa che fecero anche i suoi successori per i seguenti sessant’anni), rifiutò anche la quota offertagli dal Governo per il proprio sostentamento. Il Governo reagì all’inflessibilità del Pontefice e, in un’ottica sempre più anticlericale, avviò alcune riforme contro la Chiesa, come l’introduzione della leva militare obbligatoria anche ai seminaristi e l’abolizione dell’insegnamento della teologia da tutte le università pubbliche. La gestione e il controllo dei seminari divenne pertanto statale. I rapporti tra Regno e Chiesa si incrinarono sempre di più fino ad arrivare al culmine nel 1874 con la promulgazione da parte del Pontefice dell’espressione simbolica “non expedit” con la quale s’imponeva a tutti coloro che si definivano cattolici, credenti e praticanti, di non partecipare attivamente alla vita politica del Paese. Solo l’evoluzione della situazione politica interna indusse la Chiesa ad avere un comportamento più morbido, che culminò nel 1913 con la stipulazione del patto Gentiloni. La sistemazione giuridica dei rapporti tra Chiesa e Santa Sede si realizzò solo qualche anno più tardi e sotto il fascismo, con la firma dei Patti lateranensi l’11 febbraio 1929.

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