Credo proprio che non ci siano dubbi in proposito: non c’è uno solo di noi che non veda l’ora di buttarselo alle spalle questo maledetto 2020. Troppo dolore, troppa angoscia. Troppo di tutto.
E anche se non sappiamo ancora che cosa ci riserveranno le pagine bianche e intonse dell’agenda del nuovo anno, c’è solo un desiderio di fuga a governarci.
Poi, sappiamo bene che si profilano all’orizzonte altri mesi duri, prima di uscire a riveder le stelle, però…via, via di qua: buttarsi alle spalle questo pozzo senza fondo in cui ci hanno e ci siamo calati.
Mai avremmo immaginato che i baci e gli abbracci scambiati a capodanno dodici mesi fa sarebbero stati gli ultimi. 366 giorni dopo ci ritroviamo tra le mani un mondo che non conosciamo e riconosciamo più, che ci respinge e, temiamo, possa attrarci in un gorgo mortale.
Mai avremmo immaginato di ritrarci incontrando qualcuno, mai avremmo neppure ipotizzato di cambiare marciapiede al solo apparire d’un altro.
E quanti pezzi di affetto martoriati, quante lacrime versate per amici e parenti ghermiti.
A volte prende a far difetto la lucidità, spenti e spauriti come siamo.
Senti solo che sta passando un’epoca che è stata anche la tua e che si schiude al mondo una sorta di evo tetro, più povero di bene e di beni.
Tornare a prima? Impossibile. Già solo per avere una speranza di futuro occorre continuare a coniugarci con estremo riguardo e rispetto: abbassare la guardia ora sarebbe stupido e criminale.
Non è tempo per rimpiangere come tra pochi giorni non riusciremo a salvare convenzioni che datano da sempre.
D’accordo, per chi crede il Natale è qualcosa di più d’un semplice appuntamento incartato in fogli rossi e dorati, tuttavia se vogliamo tutti sperare di avere altri Natali da vivere, è bene rinunciare: se faremo i bravi, ma davvero i bravi, allora questo non sarà che un brutto ricordo.
Tuttavia, incaponirsi come per una “ secchia rapita”, per un capodanno sottotono e la rinuncia ad un cenone è davvero roba che rasenta l’anarchia più folle e autolesionista.
Ma davvero pensiamo che l’impedimento alla nostra libertà passi attraverso il diniego del permesso di “aperitivare”, di stare in tanti adesso, proprio adesso, attorno a un tavolo?
Torneremo a farlo, con cautela, ma torneremo.
Nel frattempo, la “povertà” in cui ci sentiamo calati potrebbe essere un’opportunità.
Quel che resta di questo periodo tremendo sta nella rivalutazione del “ meno è meglio”, del chiedere con vera intenzione, svuotandolo da banalità e distrazione, il più umile dei “ come stai?”.
Riconsiderare gli affetti, quelli veri, struggersi per non aver potuto dare un abbraccio o una carezza, potrebbe davvero rappresentare una riconversione capace di allontanarci da vite vissute all’insegna dell’iperbole.
Non invoco un ritorno alla buona povertà, piuttosto un percorso che ci conduca a capire meglio l’essenza delle cose, apprezzando ciò che davvero conta.
Sarà questo tempo senza fiato che mi induce a guardarsi dentro, ma credo davvero che questa sia un’occasione da non buttare via.
Abbassare luci, suoni e toni, riuscire a fare dei distinguo e capire quanti ciarlatani ci stiano condizionando, riuscire a percepire che all’iper-superfluo si può davvero rinunciare, può diventare un’utile nuova linea guida.
Quindi, l’augurio per il nuovo tempo che s’affaccia sia quello che possiate incontrare un tempo nuovo. Magari avrà meno lustrini, ma saprà di buono e vero. Anche se il cuore straziato ci impedisce di vedere, siamo sul crinale: non dobbiamo smettere di sperare. Un domani c’è, e ci attende.