È sempre problematico analizzare il rapporto tra la musica – l’arte più libera fra tutte – e l’animo dispotico e contorto dei dittatori. Si rischia di trovarci delle inquietanti affinità spesso prossime alla passione vera e propria. Mussolini suonava il violino, Hitler era un “wagneriano perfetto”, Stalin adorava il periodo classico viennese. Ricordo che quand’ero una ragazzina e cercavo di impratichirmi con la musica (all’epoca l’infatuazione massima era l’Eroica di Beethoven) nel mio idealismo integrale condividevo l’assioma di Cervantes secondo cui “dovunque ci sia la musica non può esserci il male”, quindi chiunque amasse l’Eroica, chi l’apprezzasse, chi ne sentisse la valenza spirituale, non avrebbe mai potuto essere malvagio. Non mi avevano ancora detto che l’Eroica era la pagina prediletta da Stalin.
Il quale peraltro aveva una vasta gamma di preferenze nè si limitava a metter becco nella musica del passato, ma cercava di inquadrarla e dispotizzarla anche nel presente, con grave danno per l’arte e per la incolumità fisica dei compositori. Uno di essi, forse il più tartassato dalle furie del dittatore, fu il pietroburghese Dmitrij D. Shostakovic (1906-1975). Potenzialmente amato da Stalin, che ne apprezzava la notorietà mondiale (cosa utilissima ai fini propagandistici) ma che non si asteneva dal riprenderlo e dal biasimarlo, esibendo vere e proprie doti di intenditore e di critico, né dal lanciargli contro l’intero apparato cultural-politico sovietico se riteneva si fosse allontanato dai suoi “desiderata”. Difatti lui, il brutale per antonomasia, detestava una certa brutalità fonica presente nel sinfonismo di Shostakovic. La goccia che fece traboccare il vaso fu l’opera “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk” il cui successo incuriosì Stalin al punto che quando fu data al Teatro Bol’šoi volle assistervi: si dice che abbandonasse la sala al primo intervallo, subito dopo la scena di sesso fra i due protagonisti. Due giorni dopo, il 28 gennaio 1936, un articolo anonimo sulla Pravda (il testo era forse di Stalin) stroncò l’opera col titolo “Caos invece di musica”, definendo l’autore un pervertito e un apolitico. Fu duro per il compositore destreggiarsi fra le denunce e rischiare ogni giorno di venire prelevato da casa, portato alla Lubjanka e sparire per sempre, come era successo e succedeva a molti suoi amici. Ma con la Quinta sinfonia, un’opera di nobile e alto respiro, riuscì a salvare sé e i suoi famigliari riconducendosi nell’alveo prediletto dal dittatore. “La risposta a una giusta critica” la definì umilmente il compositore, ma, in segreto, specificò che l’apologetico finale non era certo causato da giubilo ma “è come se qualcuno ti picchiasse con un bastone ed intanto ti ripetesse: il tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare.”
Nel periodo bellico ritrovò consensi con la Settima, ispirata all’assedio di Leningrado, e con l’Ottava, ispirata agli orrori del conflitto, ma a guerra finita rischiò di nuovo di cadere sotto la mannaia staliniana con la Nona, commissionatagli dallo stesso Stalin per esaltare la vittoria e che perciò avrebbe dovuto essere gloriosa, reboante, propagandistica. Ciò che le orecchie del dittatore sentirono fu invece un pezzo lieve, allegro, benevolo, ironico, del tutto esente dalle magnificazioni prescritte. Sprizzò di rabbia: in una vignetta di sicuro lo si vedrebbe con la bava alla bocca. Pendendogli sulla testa simili spade di Damocle, la creatività di Shostakovic ne uscì malconcia, la sua psiche accumulò ansietà e patologie d’ogni genere. Ed è pienamente comprensibile che il 5 marzo 1953, alla notizia della morte di Stalin, reagisse con un’opera sinfonica liberatoria, la Decima, in cui riepilogava gli orrori del passato e con un processo di rimozione li superava in un finale celebrante se stesso e il fatto d’essere ancora vivo.
Stalin non fu comunque “fatto fuori” dalle morbose curiosità che lo spingevano a spiare cosa Shostakovic facesse o scrivesse; a spacciarlo fu un altro compositore da lui amatissimo. Quando nella notte fra il 1° e il 2 marzo 1953 fu colpito da apoplessia, nella sua camera da letto, adagiato sul piatto del grammofono ancora acceso c’era un disco che non aveva cessato di ascoltare e riascoltare durante la notte: il concerto per pianoforte K488 di Mozart, quello che include la fatale “Siciliana” dove in forma sublime gravita il germe della morte. Stalin l’aveva scoperto tempo prima, trasmesso alla radio dall’Orchestra Sinfonica di Mosca con la pianista Maria Yudina, un’interpretazione che tutti dicono di supremo livello. Ne restò impressionato ed è confermato che nell’ascoltarlo si emozionava sempre tantissimo. Volle che glielo registrassero in disco per suo uso e consumo. Fu accontentato. Per cui l’idea che Stalin sia morto durante l’ascolto delle note mozartiane non è per nulla peregrina.
Un premio immeritato, per uno che asseriva che “uccidere un uomo è un omicidio, ucciderne centomila è un dato statistico”, un premio davvero duro da mandar giù! Però è anche una gemma ulteriore sulla corona dell’amabile Salisburghese, il quale può vantarsi di essere stato un tirannicida senza alzare un dito, solo con l’arte dei suoni.