Leggendo in anteprima l’interessantissimo libro che ha approntato la nostra Unitre, dal titolo ”Per ricordare 1915–1918”, e che verrà ufficialmente presentato il prossimo 4 novembre (quale data migliore?), alle 16 e 30 in Sala Cervi, non ho potuto fare a meno di pensare a zio Pietro, morto nell’agosto del ’17 all’ospedale militare di Pordenone, sepolto chissà dove, dopo essere stato mortalmente ferito sulla Bainsizza, falciato da una mitragliata austriaca. Anche il suo è un nome dimenticato su una lapide.
Quando passo da Montà d’Alba, dov’era nato nel ’91, tre anni dopo mia nonna e sua sorella Amedea, non posso fare a meno di fermarmi davanti al monumento ai caduti e restare muto, a guardare verso quella riga che recita “Sergente Siliano Pietro”: lui come tutti quelli che partirono e non tornarono, condannato dal tempo e nel tempo, inchiodato all’oblìo. Nonostante quelle lettere in color del bronzo, sulla lapide grigio-verde.
A chi mai può interessare oggi la storia dei tanti Pietro Siliano? Oggi che per stolida insulsaggine la storia patria a scuola la si studia a spizzichi e bocconi, come una cosa frusta, come un pezzo fallato…
Per cui non posso che plaudire all’iniziativa condotta dal presidente della nostra Unitre, Giorgio Aghemo, per aver dato corpo ad un progetto, per aver cercato di togliere dalla polvere dimentica quelli che vennero immolati nella prima guerra mondiale del secolo breve.
Ma alla fin fine di cosa parla questo libro, perché ha suscitato in me un tumulto di ricordi e di passioni?
Giorgio, cooptando un’archivista coi fiocchi quale è la nostra Daniela Siccardi e un collezionista appassionato come Torino Gai, per aiutarci a ricordare, a non dimenticare, è partito dalla lapide che sta in Piazza Europa e che elenca i caduti casellesi nella Grande Guerra e li ha tolti da quel macabro e asettico registro per ridargli voce e connotazione, andando a riscoprire, uno per uno, le loro storie, contestualizzandone gli inizi e la fine delle loro esistenze, raccontando ciò che era attinente alla vita militare del tempo, come vennero eventualmente curati: come poi furono ricordati.
Nella prefazione ad un certo punto si legge:“Sia nei piccoli paesi che nelle grandi città della nostra nazione tutti hanno dedicato lapidi e monumenti ai caduti e ai dispersi nel corso della I guerra mondiale, non solo come testimonianza del loro sacrificio ma anche come luogo ove poter celebrare e ricordare chi spesso non riposa nei cimiteri cittadini ma nei grandi sacrari o nei cimiteri militari costruiti lungo la linea del fronte.”
“Per rispondere alla duplice funzione, quella consolatoria da una parte e quella celebrativa e propagandistica dall’altra – quest’ultima in seguito ampiamente sfruttata dal regime fascista – già sul finire della guerra le botteghe artigiane iniziano a lavorare a pieno ritmo per produrre lapidi e monumenti, come efficacemente commenta Carlo Alberto Bucci: “Mentre la macchina bellica sfornava obici, con eguale sforzo imprenditoriale le fucine artistiche elaboravano il lutto nazionale” e “già si gettavano le basi per la colata di bronzo che negli anni stessi della Prima guerra mondiale, e poi nel Ventennio, avrebbe portato nella piazza di ognuno degli ottomila comuni d’Italia un monumento ai caduti”.
“In Italia il fenomeno della costruzione dei monumenti ai caduti ha una portata tale che oggi si stimano oltre 12.000 monumenti. La maggioranza di essi viene costruita nei primi anni del dopoguerra fino ai primi Anni Trenta, ma già dal 1917 compaiono le primi lapidi che presentano il nome dei caduti e che cominciano a segnare l’intero territorio nazionale con lo stesso intento: celebrare la morte ed esaltare il ricordo dei soldati tramite il nome. A questo complesso processo storico partecipano artisti di fama nazionale e internazionale e manifatture, botteghe e fonderie locali che insieme compongono un panorama esteso e diversificato delle tendenze artistiche dei primi decenni del secolo scorso”.
Nel libro, edito dalla nostra Pro Loco, si trova la storia della nostra lapide: come e quando venne concepita, chi la realizzò; chi volle dotarci d’un Viale della Rimembranza e come questo, all’inizio, venne proprio ideato davanti a casa mia, in Viale Bona, in quello che venne immediatamente contraddistinto dal pomposo titolo di “Borgo Vittoria”.
Guardo fuori, il piloncino dei Marchetti, ora rimesso a nuovo, è ancora al suo posto, proprio dove nacque nel 1917. Non so se era già lì o meno in quell’agosto maledetto, quando ferirono zio Pietro.
La notizia arrivò a casa nostra pochi giorni dopo la nascita di mia madre, che venne battezzata come Luciana, ma poi per tutta la vita dovette convivere con un “ Bellino Luciana, detta Piera” in ricordo di zio Pietro che morì di lì a poco, e per la gravità delle ferite che gli aveva spezzato la spina dorsale, e per l’infezione contratta dall’essere stato adagiato alla bell’e meglio sulla paglia e su una coperta militare lercia. Nonna Vigia non ebbe neppure la possibilità di vederlo un’ultima volta e chissà in quale fossa comune è finito.
Un po’ d’anni fa sono salito con Patrizia sulla Bainsizza e ho raccolto un sasso, l’ho messo accanto alla foto di zio Pietro: è un gesto, una cosa da nulla, ma mi è servita per dirgli che noi non l’abbiamo dimenticato.
Il libro dell’Unitre, attraverso un’opera mirabile di raccolta e testimonianze, ci richiama ad una attenzione diversa: abbiamo il dovere della memoria e i nomi silenti su una lapide hanno il diritto del ricordo. Dimenticarli, ignorarli è ucciderli un’altra volta, e proprio non lo meritano.