Quel pomeriggio settembrino la salita verso la vetta del Rocciamelone era particolarmente dura. Una improvvisa tempesta di ghiaccio ci aveva colto di sorpresa, d’altro canto eravamo quasi alla Croce di ferro a quota 3.300 di altitudine. Il nostro viso era sferzato da goccioline di ghiaccio, ma da buoni alpini non ci perdemmo d’animo. Improvvisamente Pietro si fermò, guarda il precipizio a lato e mi dice in dialetto: “Belelì luma ficaine ai plufer!” (proprio lì, quante gliene abbiamo date ai tedeschi).
Da quel momento in avanti e durante tutta la notte in vetta dentro il bivacco a quota 3.500 e con lo spettacolo delle stelle e della luna che non potevamo non contemplare sfidando il freddo pungente, Pietro fu un fiume in piena.
Avevo scoperto Pietro partigiano, in un susseguirsi di racconti di gesta ora semplici, ora epiche.
- Pietro, adesso che mi hai raccontato tutte queste storie vere, posso venire da te con un registratore e le ripetiamo insieme?. Diventeranno un libro bellissimo…-
“ No Mauro, questi ricordi finiranno con me. Troppo grande la delusione che ho provato dopo: io ho combattuto per degli ideali poi traditi dai più.”
Domenico, invece lo avevo incontrato e conosciuto nel mio lungo percorso di uomo di relazioni nella mia carriera lavorativa.
Anche con lui non mancarono occasioni per ascoltare le sue gesta da partigiano.
Quando lo conobbi era un affermato Commissario di Polizia: di origini pugliesi era a Torino perché l’8 settembre 1943 lo aveva colto soldato aviere di leva al nostro aeroporto.
- Domenico possiamo scrivere un libro? –
Identica risposta: “No Mauro, troppa delusione. Lascia perdere.“
Le anime belle di Pietro e Domenico che non si conoscevano, ora sono altrove, ma io non dimenticherò mai quei racconti, così profondi, così pieni di grande umanità, che resteranno per sempre impressi nella mia mente, tanto impressi da essere ancora oggi vividi e buoni, se mai potessi farlo, da poterli scrivere nel libro dedicato loro gesta.
Non lo farò solo per grande rispetto di due uomini straordinari.
Tuttavia, per noi che non vogliamo dimenticare mai cosa è stato l’oppressore, abbiamo il dovere morale, ognuno come può ed ognuno come vuole, di non far cadere nell’oblio i momenti più bui della nostra recente storia.
Ecco allora che in occasione della Festa della Liberazione mi piace essere presenti, ricordando le memorie vere e vive di uomini che ci hanno preceduto e che hanno contribuito a portare la nostra società a tanta vera libertà.
Eccoci allora a Pietro, giovane tecnico progettista di aeromobili presso la Fiat Avio (il nome storico della attuale Leonardo), sede di corso Marche. Un grande futuro davanti: aveva diciotto anni quando venne assunto in Fiat.
I suoi ideali, i suoi progetti, tutti svaniti nella guerra. Non era ancora un soldato, perché giovanissimo, ma aveva già il brevetto da paracadutista. L’8 settembre 1943, l’esercito allo sbando. La Fiat licenziò tante maestranze compreso lui. Domenico venne chiamato alla visita di leva da un governo inesistente e illegittimo, lui scelse la latitanza per non consegnarsi ai “repubblichini”. Sapeva che se si fosse arruolato, avrebbe dovuto obbedire ad ordini ciechi di morte e oppressione verso i suoi stessi fratelli. Entrò a far parte di una banda di partigiani che si occupava di rapire ufficiali tedeschi per poterli scambiare con partigiani arrestati. Più gli ufficiali erano di alto rango e più valevano in tema di scambio. Un colonnello tedesco valeva cento partigiani, e così a salire.
Ebbene Pietro, organizzava dei colpi da maestro: si appostava nelle vicinanze dei locali pubblici di Torino ed aspettava l’entrata o l’uscita di tedeschi e con agilità fulminea, solo, disarmato, senza appoggi, minacciava di morte il suo nemico” con un falso coltello, (la punta delle sue dita!) ed immediatamente lo portava dentro ad un portone dove il tedesco veniva spogliato: recuperata la divisa e le armi per rifornire i partigiani in montagna, il “plufer” veniva caricato su mezzi di fortuna e portato al comando partigiano.
Tutto in pochissimi minuti, prima dell’allarme e prima delle grandi retate che si sarebbero susseguite.
Con questi scambi, Pietro riuscì a liberare e salvare da morte certa decine e decine di suoi commilitoni arrestati dai nazifascisti e torturati nella caserma di via Asti a Torino.
Un traditore lo denunciò per quattro denari che non prese mai, perché venne ucciso dagli stessi aguzzini. Pietro riuscì miracolosamente ad evitare l’arresto e la condanna a morte, sentenza che venne comunque emessa in contumacia. Ricordo ancora che teneva la locandina con l’invito alla popolazione a segnalare il “bandito” Pietro con la sua foto. E una grossa taglia gravava sulla sua testa.
Scappò in bassa Valle Susa e di lì, non potendo più partecipare ad azioni di disturbo, venne incaricato di seguire la parte amministrativa del suo gruppo.
Proprio quando portai la notizia della sua morte ad un compagno ancora oggi vivo, quest’ultimo mi disse: ”Forse tu non lo hai mai saputo, ma quando io scappai non avevo più lo stipendio dalla Fiat, e lui si occupava di fare avere a mia moglie e figli l’equivalente dello stipendio, e questo fino alla Liberazione”.
Parole che rimarranno scolpite per sempre nella mia memoria.
Che dire poi di Domenico, anch’egli giovane e aviere in servizio l’8 settembre 1943, presso il nostro aeroporto.
In divisa scappò, e raggiunse a piedi la Valle del Tesso, cercò e trovò rifugio presso un parroco di una piccola comunità locale.
Lui, pugliese con diploma di ragioniere, si ritrovò in un paese dove parlavano solo il dialetto locale sstretto.
Visse nascosto per un anno in un doppio fondo creato dal Parroco nel campanile della chiesa, dove però non poteva stare mai disteso e neppure in piedi. Questa forzata postura, gli porterà poi deformazioni permanenti nella sua struttura ossea. Stette così rannicchiato fino a quando, una ragazza saputolo così in difficoltà, gli propose una caverna naturale sulle rive del torrente. Lei gli assicurò vitto giornaliero, con la scusa di andare a lavare i panni nelle limpide acque. In questo modo Domenico poté coniugare sicurezza, ma dovette vivere in una grotta giorno e notte. E fu così per un altro anno ancora. La sua compagnia erano animali selvatici e notturni con i quali riusciva persino a stabilire un rapporto di rispetto reciproco.
Anche lui era ricercato come disertore, e molteplici furono le retate per stanarlo, ma lui riuscì sempre ad essere un fantasma per il nemico.
Ma fu anche amore fra lui e la giovane ragazza che candidamente scendeva ogni giorno al fiume con i panni. A fine guerra coronarono il loro sogno in matrimonio che durò fino a pochi anni fa.
A Domenico venne riconosciuto il grande sacrificio ed enorme sofferenza di due anni vissuti in parte su un campanile in parte in una grotta, e venne assunto dal Ministero dell’Interno quale agente di Polizia, dove ebbe grandi soddisfazioni di carriera ed incarichi di prestigio.
Di lui, come di Pietro, serbo lo stesso vivo ricordo: uomini straordinari per onestà, impegno e lealtà.
Entrambi hanno sempre affermato che non uccisero mai un uomo, nemmeno il nemico tedesco. In battaglia si difendevano, ma erano orgogliosi di dire che non spararono mai un solo colpo con l’intenzione di uccidere.
Peccato veramente non aver potuto lasciare una traccia ben più profonda delle loro gesta, gesta di cui sono ancora io depositario e testimone della veridicità, ma prima di ogni altra cosa va a loro il rispetto della volontà di dimenticare.
Non seppi mai quale enorme delusione ebbero per rinchiudersi così tanto nel loro guscio. Rispetto più che mai questo loro profondo desiderio, ma nell’occasione dell’anniversario della Liberazione, ancora una volta voglio ricordare che sta a noi scegliere da che parte stare: se sposare la grandezza dei carnefici o quella degli innamorati della vita e delle persone che camminano accanto a noi. Proprio come fecero Pietro e Domenico, due partigiani da non dimenticare.