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venerdì, Ottobre 4, 2024

    Un tempo erano bambini

    VenticinqueGocce2Un nuovo anno scolastico attende i nostri ragazzi, in un mondo dell’istruzione perennemente confuso. E’ di questi giorni l’ultima proposta in ordine cronologico del ministro senza istruzione: portare l’obbligo a 18 anni. La famiglia, quella sì dovrebbe far comprendere ai ragazzi il valore dell’istruzione: con l’obbligo – per chi non ce la fa, o non ne vuole sapere…-, non andiamo lontano. Un commento tossico: se migliaia di giovani risulteranno ancora studenti, automaticamente diminuiranno i disoccupati nelle statistiche ISTAT, e così i rassegnati NEET, quelli dell’acronimo inglese di “not (engaged) in education, employment or training“, che tradotto  in italiano sta per le  persone non impegnate nello studio, nel lavoro nella formazione.

    Per favore ministro: si metta lei a studiare , seriamente.

    Parto da lontano, dagli Anni Sessanta del secolo scorso: era un modo di fare scuola che, nonostante le contraddizioni, le difficoltà ( eravamo in tanti, e a scuola si facevano i turni, come alla FIAT ), riusciva a conservare una propria semplicità: la scuola insegnava, e noi imparavamo. Col panino fatto dalla mamma.

    Tutto sommato, non siamo poi venuti su così male.

    So di tirarmi addosso pareri contrari, ma di solito, i sistemi più semplici sono quelli che funzionano. Ed era proprio così. Dalla materna, allora era l’asilo, fino ai vertici dell’università.

    Mio figlio sorride e mi guarda con una sorta di tenerezza quando racconto gli inizi con pennino e calamaio, e quanti pasticci, e carta assorbente che non esiste più. Lo so: fa molto Libro Cuore, ma funzionava così.

    E così era normale, fin da piccoli, beccarsi una punizione, una grave insufficienza sul registro, e a casa la ciabatta della mamma, a guida laser, centrava sempre l’obiettivo: io. Il giudizio dell’insegnante era insindacabile, ora non più.

    Comunque, nel bene e nel male, la scuola formava, o perlomeno cercava di farlo, ed era la didattica al centro di tutto, magari con la tenerezza della mia prima maestra, Cesarina era il suo nome, che un giorno, vedendomi piangere per l’ennesima prova di matematica ( la odio! ) andata male, mi consolò. Era al suo primo anno come insegnante.

    Poi sono arrivate le riforme, i cambiamenti, la scuola doveva essere moderna, al passo con i tempi, con le altre nazioni, dovevamo tutti essere competitivi, come ad una gara.

    E lì, inesorabilmente, abbiamo smarrito la strada.

    Prima di essere frainteso: oggi, nonostante tutto, la scuola funziona  non per le riforme o le cosiddette innovazioni, bensì per la buona volontà degli insegnanti. La cosiddetta “buona scuola”, la fanno loro, non certo le novità che spesso i vari ministri dell’istruzione propongono e impongono come rivoluzionarie.

    La burocrazia sta strangolando la scuola come una piovra: i direttori didattici sono diventati dei manager, e come tali, purtroppo per gli studenti, guardano a tutt’altro, più che alla didattica: i revisori sono intransigenti, e giustificare il perché di una supplenza è compito arduo. Basterebbe il buon senso per capire che la continuità didattica, e l’istruzione vengono al primo posto. Ma non è cosi.

    Gli insegnanti sono vessati ed inseguiti da acronimi incomprensibili: POF, PTOF, RAV (e non è il SUV della Toyota), e devono farsi spesso carico di situazioni dove l’istruzione non entra, e fuorviano dal loro mansionario dovendosi sorbire pressioni da genitori, presidi e da tutta la schiera di cosiddetti specialisti che ruotano attorno:  tutti a pretendere  per ognuno dei bambini che formano la classe, un programma specifico.

    Impossibile: basterebbe lasciare ai bambini il tempo di maturare, con pazienza, e permettere loro di arrivare al traguardo; chi prima, chi dopo, senza spingerli, senza bollarli come dislessici, disgrafici, dismemori, disqualchecosa. Una cosa sarà sempre e comunque impossibile: l’essere tutti primi. La storia dimostra che spesso chi è arrivato al vertice non ha avuto una scolarizzazione, così come è vero anche il contrario: quindi i ragazzi cresceranno, e prenderanno strade che cambieranno a seconda delle opportunità, dell’impegno, della fortuna, della loro soddisfazione personale. La selezione esisterà sempre, ed è opportuno che i ragazzi lo imparino presto: il mondo del lavoro è spietato. La vita… anche quella non scherza.

    Luciano Simonetti

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    Luciano Simonetti
    Luciano Simonetti
    Sono Luciano Simonetti, impiegato presso una azienda facente parte di un gruppo americano. Abito a Caselle Torinese e nacqui a Torino nel 1959. Adoro scrivere, pur non sapendolo fare, e ammiro con una punta di invidia coloro che hanno fatto della scrittura un mestiere. Lavoro a parte, nel tempo libero da impegni vari, amo inforcare la bici, camminare, almeno fin quando le articolazioni non mi fanno ricordare l’età. Ascolto molta musica, di tutti i generi, anche se la mia preferita è quella nata nel periodo ‘60, ’70, brodo primordiale di meraviglie immortali. Quando all’inizio del 2016 mi fu proposta la collaborazione con COSE NOSTRE, mi sono tremati i polsi: così ho iniziato a mettere per iscritto i miei piccoli pensieri. Scrivere è un esercizio che mi rilassa, una sorta di terapia per comunicare o semplicemente ricordare.

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