Finalmente questo brutto 2017 sta per finire: almeno per queste feste, c’è bisogno di rilassarsi e di ridere: per questo motivo ho scritto questo pezzo tragicomico, per il quale ringrazio l’archivio storico di Magna Balda. Il pezzo ha due particolarità. 1 – Mi è successo veramente. 2 – Si tratta del primo scoop in esclusiva per Cose Nostre.
Udite udite, ho fatto il chierichetto. Penso già alle espressioni di Elis, dei redattori e di molti lettori. Qualcuno si starà rotolando sotto il tavolo: Bear l’asociale al servizio della chiesa. Incredibile ma vero.
Ma andiamo per ordine.
Nel 1972 frequentavo la seconda media, in un paese che non dirò. Tra le varie materie che dovevo studiare, ce n’erano due che per me rappresentavano il terrore puro: matematica e religione. Matematica perché era molto difficile. Religione a causa dei “volontari”. A quei tempi, i preti delle varie parrocchie e dei vari paesi andavano a benedire le case, specialmente le cascine sperdute nella campagna, spingendosi fino ai confini comunali.
Per fare questo, dovevano avere un chierichetto, ovvero un aiutante. Quando arrivava il periodo delle benedizioni, un prete che chiameremo semplicemente Don, durante la sua ora di religione veniva a cercare qualche volontario per la missione. O meglio veniva a stanare qualche pigro studente, che non aveva certo voglia di prendersi questa grana che impegnava l’intero week end.
Quando il Don entrava in aula, serpeggiava la paura: come nelle interrogazioni, fissava tutti noi uno per uno, fino a trovare il malcapitato. Notevoli le scuse per non farsi beccare: chi fingeva di studiare concentrandosi su un libro, chi guardava fuori, chi andava in bagno per una curiosa epidemia di colite, chi si inventava vari impegni per il fine settimana. I fighetti si salvavano sempre, fingendo di partecipare ad un torneo di tennis proprio in quel week end anche se credevano che la racchetta servisse per colare la pasta. Altri sarebbero andati via con i genitori. Alcuni si inventavano dei lavori da garzone, altri si davano malati o trapassati.
Insomma, per farla breve toccò a me: crollai subito sulla sua domanda “Baldini, hai degli impegni per il prossimo week-end?” Io, che ero molto imbranato, impiegai troppo tempo per trovare una scusa plausibile e iniziai ad arrossire. L’astuto Don se ne accorse, e questo bastò a incastrarmi.
Non frequentando troppo la chiesa, (ricordo che l’ultima volta che vi entrai fu per il mio battesimo, ma non mi piacque perché mi fecero una specie di shampoo) non avevo la minima idea di cosa dovessi fare e dire; ma con un corso veloce tratto dal kit “Chierichetto dalla A alla Z” diventai subito esperto. Potevo addirittura ritirarmi in convento: frate Bear, che porta da sempre la parola del rock and roll ai discepoli.
L’appuntamento era per un sabato di prima mattina, davanti alla parrocchia. Dovevo indossare una specie di mantella bianca con il pizzo che mi faceva somigliare ad un centrotavola, e un vecchio casco con l’aureola.
Inoltre dovevo portare la borsa con i rami d’ulivo (o meglio un borsone che conteneva un baobab da 2 tonnellate). Ma poco dopo ritornava il terrore ad impadronirsi di me: dovevo salire sulla sella posteriore di un minaccioso vespone 150 truccato di colore grigio, che guidava (non sapevo come) il Don.
Speravo che non mi vedesse nessuno, ma chissà come mai quasi tutta la classe era in piazza per vederci partire; immagino i commenti: “Guardalo lì, il duro Harley e rock’n’roll in Vespa col prete”… e giù a ghignare.
La mattina passava velocemente: andavamo nelle varie cascine in fondo e in periferia. Il mio compito consisteva nell’assistere alle preghiere rispondendo con un amen quando finivano, e di raccogliere le offerte – specialmente gastronomiche – che la gente generosa regalava alla chiesa, ma che in realtà si strafogava il Don, essendo una buona forchetta. Ma quanta roba ci donavano: pintoni di vino, uova fresche, marmellate, composte e torte fatte in casa, bottiglie di grappa e digestivi vari, piantagioni di frutta, verdure varie, confezioni di dolci, naturalmente oltre a cospicue offerte di denaro.
Oltre a tutto questo, in ogni casa ci venivano offerte brioches, fette di torta, caffè, caffelatte, biscotti, pane e marmellata, pane e cioccolata. Forse iniziarono da lì i miei problemi di colesterolo e glicemia: se calcoliamo anche solo 20 case visitate al mattino, significa che mi mangiai circa 4 brioches, 6 fette di torta, 5 fette di pane e marmellata, 2 biscotti e 3 caffè. Ed era impossibile rifiutare, perché le persone si offendevano.
Sembrava che tutti facessero a gara per donarci i dolci migliori, più grossi e più sostanziosi: ricordo che in una cascina notai una betoniera, e pensai ci fossero dei lavori di ristrutturazione in corso. Invece facevano la marmellata, in quantità industriali.
La pausa-benedizioni era alle 12, dove il Don mi riportava a casa per pranzo. Ma quale pranzo, ero pieno come un uovo, con una leggera nausea e un gonfiore che mi faceva somigliare ad un paninaro col Moncler.
Inoltre ero schizzato e iperteso, a causa dei caffè. Ma la parte divertente arrivò nel pomeriggio.
Intorno alle 14 riprendemmo il benedico-tour, lievemente appesantiti ma comunque in forma per il giro: solo che, se al mattino ci venivano offerte leccornie varie per la colazione, al pomeriggio ci offrivano caffè corretti, genepy, amari digestivi, grappe varie, vino chinato, moscato, china calda, mandarinetto.
Io, data la giovane età, anche se avrei assaggiato volentieri qualche liquore non potevo. Quindi continuai a mangiare marmellate e torte, più una variante di pane con toma, tomini, e salame fatto in casa, innaffiati da innocua aranciata, perché secondo le varie cape-cascina, dovevo fare merenda. A forza di mangiare, ero ormai di colore giallo, e ad ogni sobbalzo della Vespa temevo di esplodere a causa dei gas che si formavano per la fermentazione della frutta e per gli ettolitri di bibite gasate che bevevo ormai con un imbuto.
Il Don invece non rifiutava mai niente, e accettò golosamente tutto quello che gli veniva offerto.
Verso la metà del pomeriggio iniziavano così delle prediche imbarazzanti: il Don era piuttosto sull’allegro andante, e invece di recitare le preghiere correttamente pregava con degli strafalcioni da far diventare atea persino Bernadette. Come un navigato dj odierno, faceva dei perfetti mix tra Padre Nostro e Ave Maria, lasciando le vecchiette esterrefatte e pallide come il mio mantello di Fantomas. Io ero imbarazzatissimo.
Ogni volta che salivamo in Vespa, non sapevo se sarei arrivato vivo alla prossima casa: il Don guidava a zig-zag facendo paurosamente piegare lo scooter. Io non potevo tenermi perché ero in equilibrio precario: una mano reggeva il borsone dei doni, diventato pesantissimo come se avessi fatto la spesa al Bennet; notevoli i lunghi gambi di sedano che spuntavano di mezzo metro, mancava solo più una gabbia con le galline.
L’altra mano reggeva la borsa più piccola con i rimanenti rami d’ulivo e le offerte, anche questa diventata pesante a causa delle tonnellate di monete che conteneva. Ad ogni strattone delle marce pensavo di essere disarcionato, come su un cavallo imbizzarrito. Se c’era qualche strada con la ghiaia, il vespone diventava una tavola da surf, e galleggiando fino all’ingresso della casa, parcheggiavamo direttamente nel salotto.
Ma c’è un Santo protettore per tutti, quindi intorno alle 18 rientrammo sani e salvi: il Don barcollando andò subito in parrocchia per preparare quella che doveva essere una messa, ma che a causa delle abbondanti libagioni era più simile ad un karaoke. Io tornai a casa in stato confusionale, con la marmellata di fichi che usciva dalle orecchie.
La Domenica successiva, non vedendomi arrivare, il Don venne a cercarmi a casa: ero bloccato a causa di una mostruosa indigestione più la rosolia (un dono di qualche fedele) che mi costrinsero a letto per una settimana. Da allora, non ho mai più mangiato marmellate. E non sono più andato a benedire nessuna casa. Buone feste.
Frate Bear