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mercoledì, Maggio 1, 2024

    Il fascino dell’incompiuto

    Turandot al Teatro Regio nella versione “solo Puccini”

    UnaVocePocoFaDi incompiuti è piena la storia dell’arte, e in generale la storia dell’attività umana, anche quando non è intervenuta la morte dell’autore a impedire il completamento di un’opera.
    Le persone di mente creativa, molto esigenti con sé stesse ma non particolarmente metodiche, iniziano spesso progetti la cui portata si rivela superiore alle loro forze, o anche solo alla loro reale volontà di portarli a termine, e preferiscono abbandonare il lavoro piuttosto che completarlo in una maniera che non li convinca appieno.
    Fino ad alcuni secoli fa, sulla scorta di un ideale di bellezza di matrice classica, agli incompiuti non si prestava particolare attenzione, se non, quando lo si ritenesse opportuno, per farli completare da mani diverse da quelle di chi li aveva concepiti.
    Il non-finito, in sé stesso, era considerato non autosufficiente. Con l’avvento del Romanticismo, e dei suoi ideali di ricerca perenne di mete irraggiungibili, da un lato sono aumentati a dismisura i lavori – letterari, filosofici, figurativi e musicali – lasciati incompiuti da autori che non riuscivano a confezionare conclusioni rispondenti alle proprie aspettative; dall’altro è nato un nuovo interesse per questi frammenti, appunti e bozzetti, studiati e ammirati come testimonianza di un’attività di ricerca rimasta senza risposte definitive.
    Interesse che è cresciuto nel mondo contemporaneo, poiché ben si sposa con l’approfondirsi degli studi di taglio scientifico-accademico applicati alle arti (un numero sempre maggiore di studiosi si occupa di scandagliare le produzioni del passato, anche in quelle pagine dimenticate dalle precedenti generazioni), con il gusto psicanalitico di parte della critica, e, più in generale, con la frammentarietà stilistica che caratterizza il postmoderno. Un lavoro non finito può quindi assumere un significato autonomo nonostante l’incompletezza, anzi, a ben vedere, proprio in ragione della sua incompletezza.

    Giacomo Puccini

    In musica non mancano celebri casi di pezzi incompiuti. Il Requiem di Mozart, per esempio, o tre sinfonie di epoca romantica: la Sinfonia n. 8 in si minore di Schubert (“l’Incompiuta” per antonomasia), la Sinfonia n. 9 in re minore di Bruckner e la Sinfonia n. 10 in fa diesis minore di Mahler; quattro opere che, al giorno d’oggi, rientrano normalmente nella programmazione delle stagioni concertistiche mondiali, talvolta nelle sole pagine finite dai loro compositori, tal altra ricorrendo a revisioni postume che hanno cercato di ricostruire la volontà d’autore per le parti abbozzate.
    Anche il teatro musicale registra opere incompiute, ma è raro che esse abbiano raggiunto un palcoscenico e, soprattutto, che siano divenute popolari.
    Infatti, se una composizione sinfonica gode di una propria fruibilità anche quando il discorso musicale non sia stato completato secondo le originarie intenzioni d’autore – difficile che un ascoltatore si alzi, dopo l’Incompiuta di Schubert, lamentando la mancanza di Scherzo e Finale –, un’opera lirica priva di conclusione lascia un vuoto drammaturgico che respinge lo spettatore esterno alla cerchia accademica.
    Così, se la si vuole “salvare”, si ricorre al completamento apocrifo. In tal modo si regolò Toscanini quando decise di portare in scena Turandot, l’opera che Puccini, morendo, aveva lasciato incompiuta: il lavoro fu affidato a Franco Alfano, il quale stese un finale che, tuttavia, non lasciò soddisfatto il direttore d’orchestra.
    Alfano fu costretto a riscrivere accorciando, altri tagli fece Toscanini, e altri ancora sono consueti nella prassi esecutiva.
    Il risultato è che spesso, oggi, quando si ascolta Turandot, il finale è un’appendice meramente funzionale a concludere la vicenda, la cui paternità artistica è difficilmente definibile e la cui coerenza stilistica poco interessa a chiunque.
    Agli albori del nostro millennio, Luciano Berio scrisse un proprio finale, fondato sugli abbozzi pucciniani, sporadicamente ripreso ma non entrato in repertorio. Altri compositori hanno lavorato per anni e lasciato le loro note nel cassetto.
    Se si vuole mettere in scena una Turandot con finale, forse la soluzione più corretta sarebbe quella di riprendere la versione originaria di Alfano.
    Ma è proprio necessario eseguire l’opera con un finale apocrifo? Lo stesso Toscanini, alla prima assoluta, preferì deporre la bacchetta dove terminava l’autografo di Puccini.
    E, a ben vedere, non fu solo la morte, nel 1924, a impedire a Puccini di dare una conclusione alla sua ultima opera, alla quale lavorava da quattro anni. Probabilmente non lo convinceva del tutto la drammaturgia fornitagli dai librettisti, con un finale trionfalistico nel quale Turandot e Calaf iniziano una vita d’amore felici e contenti dimenticando il sacrificio di Liù, la vera eroina pucciniana dell’opera, schiava innamorata che si uccide perché l’uomo da lei amato possa conquistare un’altra donna; non è un caso che il compositore si sia arrestato dopo la scena della morte di Liù.
    Per questo, al Regio di Torino, dove l’opera va in scena in questi giorni, il direttore Gianadrea Noseda ha deciso di chiudere il sipario dove termina la mano di Puccini, su una scena mesta e dolorosa.
    Il pubblico odierno dovrebbe essere in grado di apprezzare il capolavoro anche se alla vicenda manca una convenzionale “conclusione”.


     

    QUESTO MESE AL BOTTEGHINO…

    Unione Musicale: al Conservatorio, il 24 gennaio concerto del Coro Maghini con pagine di Schubert, Schumann e Brahms. Il 7 febbraio recital del soprano Sandrine Piau (al pianoforte Susan Manoff), che propone una selezione di liriche da camera di Richard Strauss, Chausson, Mendelssohn, Debussy, Poulenc, Britten.

    Filarmonica: il ciclo delle “nove stanze” prosegue al Conservatorio il 6 febbraio con “Il giardino d’inverno”, diretto da Giampaolo Pretto con il violoncellista Enrico Dindo: in programma la Sinfonia n. 1 “Sogni di’inverno” di Cajkovskij, preceduta dalla Romanza in fa maggiore per violoncello e orchestra di R. Strauss e dal Concerto n. 1 per violoncello e orchestra di Sostakovic.

    Teatro Baretti: il 27 e 28 gennaio si terrà la decima edizione della ormai tradizionale “Mozart Nacht und Tag”, 36 ore ininterrotte di musica di Mozart, con la partecipazione di artisti affermati e allievi del Conservatorio.

    Orchestra Rai: dal 19 gennaio al 2 febbraio si svolge la rassegna “Rai Nuova Musica”, dedicata alle nuove proposte della musica colta contemporanea.

    Concerti Lingotto: il 6 febbraio, per la rassegna dedicata ai giovani, recital del pianista Lukasz Krupinski, vincitore del primo premio al Concorso pianistico della Repubblica di San Marino 2016.

    Teatro Regio: fino al 25 gennaio Turandot di Puccini, con Rebeka Lokar, Jorge de Leon, Erika Grimaldi (cui si alternano Teresa Romano, Diego Torre e Gaston Rivero, Natalia Pavlova); direttore Gianandrea Noseda, regia di Stefano Poda.
    Il 22 gennaio concerto diretto da Noseda con programma a sorpresa.

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