Con impresa fiumana si intende quella serie di avvenimenti che portarono all’occupazione e alla successiva reggenza italiana nella città di Fiume attraverso la sedizione di una parte dell’Esercito Regio. La spedizione, avvenuta il 12 settembre 1919, fu guidata dal poeta soldato Gabriele D’Annunzio, il quale si pose a capo di un fronte nazionalista composto per la maggior parte dai Granatieri di Sardegna e dagli arditi. D’Annunzio fu il più autorevole esponente dell’imperialismo adriatico, ideologia che vedeva come unico possibile espansionismo italiano quello verso il confine orientale e i Balcani. Più che come azione militare, l’occupazione di Fiume si sviluppò in una marcia trionfale di soldati, autocarri, carri armati ed automobili che alcuni studiosi considereranno poi preludio al colpo di stato attuato da Mussolini tre anni più tardi marciando anch’esso ma su Roma. Una caratteristica comune tra le due marce fu proprio che entrambe risultarono vincenti grazie all’appoggio generalizzato di generali e ufficiali dell’esercito. L’idea della presa di Fiume con la forza era molto diffusa già alla fine della primavera del 1919 e le manifestazioni a favore di questa iniziativa armata crebbero pari passo alla sensazione di aver ottenuto una “vittoria mutilata”.
La città di Fiume era composta a maggioranza di cittadini italiani che auspicavano l’annessione al loro paese di origine. Questo sentimento comune si manifestò in tutta la sua forza quando la mattina del 12 settembre all’ingresso a Fiume D’Annunzio fu accolto come un vero e proprio trionfatore ed eroe nazionale. I festeggiamenti durarono per tutta la giornata senza che ci fosse alcuno scontro. La reazione del governo Nitti fu di sorpresa ed incredulità in quanto mai si sarebbe aspettato che all’interno dell’esercito vi fossero manifestazioni così profonde di solidarietà nei confronti di D’Annunzio e di ostilità verso il governo in carica. Era evidente che Nitti non disponeva più di alcun controllo sull’apparato militare dello Stato ma era altrettanto chiaro che si trovava però nell’impossibilità di prendere un provvedimento di carattere disciplinare verso i militari dissidenti per non provocare un colpo di stato. L’occupazione di Fiume fu da modello al fascismo per le sue milizie, per le sue divise, per il nome delle sue squadre e per i suoi rituali.
L’impresa fiumana si ascrisse in una più generale crisi della stato liberale, del rispetto della legalità e dell’autorità del governo che poi ebbe il suo apice con l’avvento del fascismo al comando. La nascita della diarchia tra Nitti e D’Annunzio fu un chiaro segnale di un movimento sovvertitore dell’intero del sistema politico ed istituzionale. Nell’autunno del 1920 Fiume divenne il centro di un piano insurrezionale che mirava a rovesciare il governo, in mano ora a Giolitti, e a installare un nuovo regime. I golpisti per attuare il loro piano di presa del potere intendevano partire dalla provincia del Carnaro in direzione di Roma seguendo due possibili itinerari, o da Trieste o sbarcando ad Ancona. Giolitti riuscì a scongiurare il golpe operando in due direzioni, la prima avvicinandosi ad alcuni esponenti del fronte insurrezionale, come per esempio allo stesso Mussolini, e la seconda assicurandosi la fedeltà degli alti gradi dell’esercito.
L’esperienza della Reggenza Italiana del Carnaro terminò definitivamente con il trattato di Rapallo stipulato tra l’Italia e la Jugoslavia il 12 novembre 1920 e che garantì l’indipendenza dello Stato libero di Fiume. Al rifiuto di D’Annunzio di riconoscere le condizioni del trattato, la città fu circondata e presa d’assalto dall’esercito italiano in quello che lo stesso Vate battezzò come il Natale di sangue. L’anno seguente furono indette le prime elezioni parlamentari a Fiume nelle quali la maggioranza delle preferenze andarono al Movimento Autonomista.
Ciò che accadde a Fiume rappresentò bene la complessità del primo dopoguerra, periodo storico fortemente instabile a livello politico e che sancì in Italia il decadimento dello Stato Liberale. Movimenti atipici come il fascismo, che mescolava al proprio interno nazionalismo e socialismo, rivoluzione e autoritarismo, sorsero dalle ceneri di uno Stato di stampo ottocentesco il quale aveva fallito nella conduzione della guerra appena conclusasi e che poi, nell’immediato dopoguerra, non era stato in grado di fornire le opportune risposte politiche e socioeconomiche ad un paese ormai prosciugato di tutte le proprie risorse.