Il mese scorso si è parlato delle vicissitudini compositive dell’ “Otello” di Verdi; un’opera che il melodrammaturgo di Busseto seppe realizzare dopo d’aver assorbito su di sé, come una spugna, tutte le sfumature della tavolozza musicale da Mozart in poi.
Tuttavia resta un’opera profondamente personale, che non tradisce derivazioni di sorta. Non vi si sente l’invasione della marea post-wagneriana, ma nemmeno il verismo che arriva a grandi passi; il linguaggio musicale è integralmente originale, è l’esito obbligatorio a cui il suo talento doveva approdare. Qui non c’è più la “parola scenica” perché tutto è diventato “parola scenica”, vale a dire una declamazione lirica che scorre costante e che persino nei pezzi che ancora potrebbero definirsi Arie non sfiora mai l’edonismo vocale, ma tocca un “quasi parlando” simile in certi momenti all’Espressionismo ancora di là da venire. È questo declamato che continua a protendere sulla nostra attuale cultura i suoi tentacoli dolorosi e brutali. Le tonalità eluse e sospese dell’inizio, in bilico fra il suono e il rumore; le dolcezze infinite del duetto stellare, coi violoncelli cantanti mentre l’astro di Venere splende; il torrente di magma che sta sotto il giuramento sul “ciel marmoreo” dove davvero si sente prendere forma il “marble heaven” di Shakespeare; il “sogno” in tempo di siciliana tutt’intriso di languore osceno; l’impasto livido dei fiati all’aprirsi del IV atto; il fatale motivo della morte incipiente che si fonde, come in un abbraccio, con quello del bacio; il senso di totale annichilimento dell’ultima scena: in ognuno di questi momenti il magistero è portato allo stadio ultimo. Qui Verdi superò realmente ogni scuola precedente. Superò, si potrebbe dire, persino il concetto di melodramma.
Otello non è, o non è soltanto, il dramma della gelosia: una gelosia che – come ha detto Massimo Mila – non ha niente a che vedere con la gelosia di altri testi musicati da Verdi e di altri suoi personaggi, quali il conte di Luna, Stiffelio, Renato, il vecchio Silva… Alla psicologia istintiva di costoro, qui subentra l’esplorazione dell’inconscio, dei recessi più profondi dell’anima, delle sue più buie contraddizioni. I vecchi schemi non si addicono ad Otello perché Otello è opera di un “altro” musicista. Ritenere che la trama consista nel mero assassinio di Desdemona, significa non averne compreso l’essenza. Argomento basilare non è tanto l’uxoricidio, quanto ciò che oggi si definirebbe una “crisi di identità.” Il protagonista viene plagiato, estraniato da sé, contagiato dall’inquinamento che produce su di lui la malefica persuasione di Jago. Ed è proprio alla perduta immagine di sé che Verdi ha dato il massimo risalto in “Ora e per sempre addio”, che è il vero ombelico musicale dell’intera opera. Tutto questo c’era già in Shakespeare (che, com’è noto, “conosceva Freud meglio di noi”) e il poeta Boito non fece altro che travasarlo e passarlo al compositore. Bisogna perciò accantonare i semplici schemi del romanzo d’appendice ed acquisire quel pessimismo cosmico che era sempre stata la cifra più o meno nascosta del pensiero verdiano. Con questa accanita indagine sulle anormalità del cuore, della mente, dei nervi, Verdi pagò la sua parte di debito con la modernità.
Del resto se diamo un’occhiata complessiva alle sue creazioni ci accorgiamo che benché la gelosia, nei suoi vari modi d’essere, sia spesso il meccanismo propulsore delle trame, in nessun’altra sua opera si assiste ad un uxoricidio. L’opera che vi si avvicina di più è “Un Ballo in maschera”, dove Renato, nella sua esasperazione, minaccia effettivamente di uccidere Amelia, salvo poi tornare in sé e dirigere la vendetta sull’amico fedifrago. Gli attriti coniugali presenti in altre opere, come ad esempio “La Battaglia di Legnano” o “Stiffelio”, vengono appianati in un misto di afflizione e generosità d’animo, mentre nella “Luisa Miller” la gelosia non produce un omicidio ma un “suicidio a due”. Ed escludiamo anche il finale di “Don Carlos”, in cui la gelosia del re troverà certo compimento, ma non si sa in che modo, visto che lo scioglimento della trama rimane profeticamente sospeso.
Malgrado alcune forzature maschiliste, l’uomo verdiano, è sempre “vir” e si mostra sempre rispettoso, quasi riverente, verso la controparte femminile. Controparte la cui forza d’animo non è mai un optional. Le opere di Verdi sono popolate da donne di carattere che in ruolo sia attivo che passivo restano portatrici di valori e di moralità; anche quando sgarrano, come la “traviata” Violetta, trovano sempre in sè la capacità di riscatto. Solo una donna assolutamente e perfettamente innocente come Desdemona (e in quanto tale, inevitabilmente votata alla catastrofe) potè materializzare nella mente di Verdi questo uxoricidio perfetto.