Nel mese di luglio del 1792 a causa della guerra scoppiata su tutti i fronti, Franz Joseph Haydn, che tornava a Vienna dopo i trionfi londinesi, fu costretto a fare un lungo giro e passò da Bonn. Durante i festeggiamenti in suo onore gli fu presentato un giovane pianista dotato di buona vena compositiva. Haydn sfogliò alcune sue opere, vi trovò delle buone idee, e col suo aplomb paterno e bonario gli disse che se si fosse trasferito a Vienna avrebbe potuto occuparsi di lui, magari dandogli delle lezioni.
Era ciò che il giovane Beethoven, che sognava di tornare nella città imperiale dopo la rapida visita di qualche anno prima, si augurava di sentirsi dire! Così gli amici si fecero in quattro per facilitargli il viaggio, il principe elettore gli concesse un permesso senza limiti di tempo, e dopo d’aver sistemato la famiglia (i due fratelli, ancora studenti, e il padre, ormai malato cronico), il 2 novembre, poco prima che la città di Bonn cadesse in mano alle truppe francesi, salì sulla carrozza di posta e partì, confortato da una delle profezie più straordinariamente azzeccate che ci siano, quella del conte Waldstein, secondo cui a Vienna “avrebbe ricevuto dalle mani di Haydn lo spirito di Mozart”.
Il trasferimento dal Reno al Danubio fu definitivo, non avrebbe più rivisto il paese natale. Appena sistematosi a Vienna – città, si noti, pullulante di scaltri musicisti tutti desiderosi di emergere – le sue splendide doti di pianista e improvvisatore lo portarono a primeggiare e a tirare dalla sua tutti i nomi importanti dell’alta nobiltà, i Lobkowitz, Lichnowsky, Kinsky, Fries, ecc. che seppero subito riconoscere la novità presente nella sua tecnica e nel suo linguaggio, uno stile inedito, originale, in una parola: moderno. Non appena l’inquietante renano cominciò a suonare nelle loro sale e salotti, li galvanizzò.
Giunto lì allo scopo di perfezionare la propria formazione musicale, più che di Haydn seguì le lezioni di Albrechtsberger per il contrappunto e di Salieri per l’uso delle voci. Aveva portato con sé un gran numero di brani scritti a Bonn, subito incrementati da una pletora di pezzi pianistici, rondò, laendler, variazioni su temi operistici, tutti utili per le sue esibizioni. E ben presto da allievo passò ad essere insegnante di pianoforte, istruendo signori e soprattutto signore (da quest’ultime assai apprezzato!). L’effetto delle sue esecuzioni era tale da lasciare attoniti persino i suoi rivali: dopo di averlo ascoltato, il pianista Tomášek confessò “mi sentii così profondamente umiliato nel mio intimo da non poter più toccare il pianoforte per diversi giorni.”
I suoi primi ritratti (tutte incisioni al bulino) ci mostrano un giovanotto basso di statura, nero d’occhi e capelli, ben lisciato e azzimato, col nome modificato in Louis o Luigi secondo la moda. Ma non si deve pensare che il pianista ed improvvisatore rispondesse a questi dettami. Ciò che il suo pubblico vedeva era un giovane dalla criniera ribelle, disinvolto, fiero, in odore di giacobinismo, che ostentava sprezzatura nei confronti dei protettori aristocratici (da cui invece era adorato); un vero “gran Mogol”, come lo definì Haydn riferendosi ai suoi modi selvaggi e alla sua carnagione scura. Non era un comune virtuoso che compie prodigi alla tastiera, ma un’anima intrisa di Kant e di Schiller.
Circa il carattere, che lo avesse bizzarro era risaputo, ma la sua impulsività nascondeva una natura fondamentalmente buona, capace di nutrire affetti profondi, spesso amante degli scherzi, divertente e divertita. In quei giorni Giuseppe Carpani nel suo scritto “Le Haydine” accennò a lui e gli chiese di cercare di porre un freno alla sua fantasia, o per lo meno di darle un ordine, una misura, però “senza cessare di essere il Kant della musica”. Mirabile definizione!
Il primo picco di popolarità lo toccò con la grande “Accademia” durata tre giorni alla fine di marzo 1795. Già disponeva del suo 2° concerto per pianoforte e orchestra (quello denominato “primo” in realtà fu composto per secondo) e il successo lo indusse a fare una tournée (la prima ed ultima della sua vita) a Praga-Lipsia-Buda-Berlino dove colse grandi trionfi e buoni guadagni. Ormai la sua ambizione compositiva, valorizzata dal popolare “Settimino” op.20 e soprattutto dai sei quartetti op.18, non si contentava più del repertorio da camera, mirava alle grandi forme, che cominciò ad approcciare con metodo, dilatandone a dismisura sia la ricchezza tematica che la pregnanza armonica. Ma fin dall’op.1 (tre trii con pianoforte) e dall’op.2 (tre sonate per pianoforte) pubblicate da Artaria, la sua personalità creativa era già pienamente definita: non potresti scambiare questi pezzi con i pezzi di nessun altro. E prima che il nuovo secolo giungesse, un terzo concerto (quello in do minore) e una prima sinfonia già si affacciavano alla sua mente vulcanica…