Nel periodo pasquale appena trascorso abbiamo sentito in tutti i modi possibili il ben noto compianto di Maria ai piedi della croce, lo “Stabat Mater”. È il tradizionale inno della Settimana Santa, una “sequenza” attribuita a Jacopone da Todi che risale alla fine del ‘200. La sequenza era un testo aggiuntivo inserito dopo l’Anno Mille nell’ordinario della Messa. Ormai al di là della metrica latina classica, era costituito da terzine rimate (in effetti è la prima forma conosciuta di poesia rimata, cosa che lo pone all’origine di tutte le forme poetiche moderne). Essendo di per sé un testo abbastanza “recente”, cioè non risalente ai primi secoli cristiani come ad esempio il “Te Deum”, la sua intonazione musicale non poté avvalersi del canto gregoriano antico, ma si basò su una cantilena a cori alternati, ispirata ad uno stile “gregoriano spurio”. Ancor oggi questo Stabat Mater primitivo viene cantato il Venerdì Santo durante la Via Crucis papale al Colosseo.
Da un tronco così scarno spuntarono foglie e fiori bellissimi. Lo Stabat Mater è infatti uno dei testi più utilizzati nella storia della musica: in tutti i tempi si è amato il suo andamento ritmico cadenzato di ottonari e senari, l’intensa meditazione sulle sofferenze di Maria, il mistico abbandono che spinge a voler provare le sue stesse sofferenze. Partendo dalla densa polifonia fiamminga, con Orlando di Lasso e Josquin des Prés, ma soprattutto con Giovanni Pierluigi da Palestrina (che alla fine del ‘500 ne diede una versione a mottetto con doppio coro che ancor oggi è una gemma della sua produzione), proseguendo poi nel ‘600 barocco, il graduale ispessirsi dell’orchestra portò il canto corale a corposità sempre maggiori. In genere l’incipit e il finale venivano scritti con la tecnica del fugato, mentre nelle parti centrali i recitativi si alternavano ad arie e duetti delle voci soliste, rigorosamente femminili. Già con Alessandro Scarlatti la lunghezza del brano aveva raggiunto durate imponenti, e così sarà con lo stesso Domenico, figlio di Alessandro, con Antonio Vivaldi, Agostino Steffani, Tommaso Traetta (per nominare solo i più celebri). Però la fama di tutte queste creazioni dovette presto soccombere di fronte al lavoro di un giovane genio sfortunato, sofferente, malato, morto di tisi a 26 anni a Pozzuoli: Giovanni Battista Pergolesi. Il suo Stabat Mater, che fu
completato, si dice, poche ore prima della sua morte, sarebbe diventato lo Stabat Mater per eccellenza, musica dolcissima e trafiggente, grondante pathos, scritta in una prospettiva tutta nuova a causa dell’afflato sincero, vissuto, squisitamente sentimentale. Il meraviglioso arco melodico ascendente di “Paradisi gloria” resterà uno dei raggiungimenti più alti di tutta la musica.
La fama postuma di Pergolesi esplose nel mondo come una supernova e cancellò il manierismo un po’ pomposo dell’epoca. Tutti i compositori che vollero confrontarsi con quel testo dovettero fare i conti con lui, col ricordo di lui, con le soluzioni escogitate da lui. Ciò vale anche per le opere egregie scritte da Paisiello, Salieri, Boccherini, ecc. che durante il ‘700 non seppero rinunciare a cimentarvisi, ma anche per quelle che, a ‘800 inoltrato, con orchestra e numero di solisti molto potenziati, furono create da Saverio Mercadante e da Gioacchino Rossini: quest’ultimo toccò il suo più grande coinvolgimento emotivo proprio con lo Stabat Mater, forse il più noto ed amato dopo quello di Pergolesi.
Le strofe di Jacopone ispirarono anche ambiti non italiani. Oltre a Haydn, lo stesso Franz Schubert ne fu attratto, sia pur attraverso una parafrasi in lingua tedesca. E Antonin Dvořák, quando decise di scrivere musica sacra, scelse proprio lo Stabat Mater, che divenne una delle sue opere sinfoniche più maestose. A questo gigantismo fece da contraltare il sobrio Stabat Mater per coro misto di Giuseppe Verdi, incluso nei suoi “Quattro Pezzi Sacri” (1898). Un’interpretazione dolorosa, senza concessioni ad alcuna aspettativa o visione dell’aldilà, dove il moto ascensionale del sol maggiore di “Paradisi gloria”, che sembrerebbe offrire una trasfigurata luce di speranza, resta inghiottito dalla cupa ricomparsa degli accordi iniziali che tolgono ogni certezza di bene sulla terra.
Ma il compianto ai piedi della croce continua a parlare anche al secolo XX e al XXI. In Italia Lorenzo Perosi (1904) ne ha fornito una versione intima e bella, ma soprattutto Karol Szimanowsky (1929) con il suo stile grave, raccolto, scarno, ha detto una parola nuova al riguardo, e così Krzysztof Penderecki (1985) col suo neopolifonismo. Francis Poulenc (1951) diede tutto se stesso immedesimandosi nel testo cattolico nel ricordo di un caro amico morto. Ultimamente mi è capitato di sentire uno Stabat molto pregevole, “da camera”, del compositore estone Arvo Pärt. Nicola Piovani ne ha di recente scritto uno, e Stefano Lentini, specializzato in colonne sonore, l’ha musicato per il film “The Grandmaster”: a conferma della sua straordinaria resilienza persino in tempi di musica elettronica e minimalismo!