Un pascià bergamasco sul Corno d’oro

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Sono certa che molti lettori di questa rubrica, sentendo parlare di un musicista di nome Giuseppe Donizetti penseranno a un errore di stampa: ma come! – diranno – il nostro Donizetti nazionale non si chiamava notoriamente Gaetano?
Ebbene, non è un errore. Infatti nella nidiata di bambini nati in quella cantina bergamasca “dove non entrava mai ombra di luce”, tutti figli di Andrea Donizetti e di Domenica Nava, Giuseppe era il primogenito (nato nel 1788) e Gaetano (nato nel 1797) il penultimo. Anche Giuseppe sentì presto la vocazione musicale e studiò, come il fratello minore, con l’autorevole Simone Mayr; ma, eclettico e avventuroso, si lasciò affascinare dalla sirena napoleonica, cosa che lo portò ad arruolarsi nell’esercito francese durante le campagne d’Austria e di Spagna, dove fra l’altro si distinse come eccellente direttore delle bande (mansione assai stimata da Napoleone). Talmente fedele al suo Imperatore, Giuseppe lo seguì nell’esilio dell’Elba e in Francia durante i Cento Giorni; ma dopo il tramonto definitivo della sua stella dovette accontentarsi di proseguire nella carriera di maestro di banda a Torino, anzi, a Casale Monferrato, per l’esercito sabaudo. Non bisogna dimenticare che nel primo ‘800 l’importanza delle bande era fondamentale e che i livelli esecutivi superavano a volte, per abilità strumentale e virtuosismo, quelli delle normali orchestre sinfoniche. La banda era presente dovunque, in ogni piazza, in ogni palazzo, in ogni teatro. Anche nel corso delle esecuzioni di opere liriche se ne faceva largo uso, introducendola sulle scene per produrre effetti speciali o a supporto della stessa orchestra.
La grande svolta nella vita di Giuseppe avvenne nel 1828 quando, tramite l’ambasciatore piemontese a Costantinopoli, fu invitato a trasferirsi in Turchia per occuparsi delle bande locali e dargli smalto. Da quel momento in poi Istanbul fu la sua seconda patria. Mentre il fratello Gaetano percorreva una faticosa carriera in Italia, Giuseppe bruciava le tappe e, designato dal sultano Mahmud II maestro di musica a corte, diventava il fido insegnante dei membri della famiglia reale e delle principesse e donne dell’harem. Prima nominato colonnello con l’incarico di programmare i concerti di musica militare, poi onorato col titolo di Bey, poi ancora promosso “maggiore generale”(una carica simile a Kappelmeister), ricevette da ultimo il titolo di Pascià. Tutto questo non cancellò le origini bergamasche né gli impedì di tenersi in contatto con la famiglia restata in Italia; Gaetano, che pure lo vedeva di rado, lo chiamava bonariamente “il mio fratello turco”.
Il “pascià Giuseppe” mirava alla simbiosi fra musica europea e musica turca. Del resto la musica turca guardava da sempre all’Europa; la passione dei turchi (dal sultano all’ultimo suddito) era rivolta verso occidente. Per cui la vita musicale di una città cosmopolita come Istanbul non fece troppa fatica a modellarsi sul gusto di Giuseppe, che nelle sue composizioni irrobustì la consuetudine locale con l’armonia classica occidentale. Usò spesso elementi tradizionali e conferì così alla sua musica un colore raffinato, del tutto speciale. Compose il primo inno nazionale dell’Impero Ottomano, la marcia di Mahmud, che fu suonata incessantemente (e forse è suonata tuttora), mentre per il successore Abdulmejid, compose un’altra marcia, che per ventidue anni rimase l’inno della Turchia. A Pera, nel teatro dell’opera, allestì una stagione fissa annuale; fondò una scuola d’armonia musicale per richiamare allo studio allievi d’ogni dove; si occupò di vocalità e di canto corale; l’orchestra sinfonica diretta da lui suonava in tutte le grandi occasioni divenendo attrice di funamboliche esibizioni.
Questa particolare abilità nel fondere gli stili gli fu riconosciuta anche da un mago del pianoforte come Franz Liszt, che scrisse una delle sue “parafrasi” sulla marcia per Mahmud, e si recò in tournée ad Istanbul, seguito poi da altri solisti di vaglia. “Dall’Ellesponto fino al Mar Nero si spande l’italiana armonia ed alle dolci sue note echeggiano le due rive d’Europa e d’Asia” scrisse Felice Romani, il librettista di Gaetano. Quando nel 1856 Giuseppe morì, venne sepolto nella Cattedrale di Santo Spirito a Pera, nel distretto di Beyoglu. E proprio a Beyoglu c’è tutt’oggi un localino che prepara un caffè particolare intitolato a lui, misto di panna acida, che si dice fosse il suo preferito. Istanbul non l’ha dimenticato. Di recente il compositore e direttore d’orchestra turco Emre Araci gli ha dedicato una appassionante biografia, col sottotitolo “il pascià bergamasco”, che è stata da poco tradotta in italiano con prefazione di Paolo Fabbri (Sandro Teti Editore). Da non perdere.
Quindi se vi capitasse di passeggiare in piazza Taksim o sul Corno d’Oro, guardatevi attorno e pensate un po’ anche a Giuseppe.

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Luisa Forlano
Luisa Camilla Forlano è nata a Boscomarengo, in provincia di Alessandria, e vive a Torino. Oltre all’amore per la Musica coltiva assiduamente quello per la Storia, in particolare per l’antichità classica, ma anche per i secoli a noi più vicini, quelli della rinascita della ragione. Ed è stato nel desiderio di far rivivere alcuni momenti storici cruciali che si è affacciata al mondo della narrativa: nel 2007 col suo primo romanzo “Un punto fra due eternità”, un inquietante amore ai tempi del Re Sole; e poi con “Come spie degli dèi” (2010), che conserva un aggancio ideale col precedente in quanto mette in scena le vicende dei lontani discendenti del protagonista del primo romanzo. In entrambe le narrazioni la scrupolosa ricostruzione storica costituisce il fil rouge da cui si dipanano appassionanti vicende umane, fra loro differenti, ma fortemente radicate nella realtà storica del momento.

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