Il 30 settembre 1853 fu davvero un giorno memorabile. Nella casa di Schumann a Düsseldorf batté alla porta un giovanotto con zaino in spalla e alpenstock in mano. Volto glabro, lunghi capelli biondi sulle spalle, sembrava più giovane dei suoi vent’anni, quasi un adolescente. Veniva da Amburgo, la città natale dei suoi studi, e per guadagnarsi da vivere girava per la Germania con l’amico Remenyi suonando canti folclorici ungheresi per strade e osterie. Giunto in riva al Reno e vinta la timidezza, si presentò alla porta del compositore che ammirava più di tutti, Robert Schumann. Schumann, con la solita generosità, lo accolse e lo invitò a suonargli un brano della sonata che diceva di aver composto, e Johannes Brahms (stiamo parlando di lui) si gettò sul pianoforte ed eseguì. Alla fine del primo movimento Robert si alzò in preda a grande agitazione e uscì dalla stanza esclamando: “Clara, vieni, devi ascoltare!”. Entrò Clara. Da quel momento, posati gli occhi su di lei, il giovane dai lunghi capelli biondi non avrebbe più avuto occhi per nessun’altra donna.
Quella sera Schumann scrisse nel suo diario: “Visita di Brahms. Un genio!” Giudizio ben presto riconfermato attraverso un mirabolante articolo intitolato “Vie Nuove” sulla sua rivista musicale. Dopo una simile accoglienza, l’impegno di Brahms per mostrarsi degno dei pronostici fu estenuante, ma gli riuscì bene in quanto, pressoché “adottato” dalla famiglia, poté approfittare in modo diretto degli insegnamenti stilistici di Robert e dei consigli esecutivi di Clara. Il legame si fece anche più stretto dopo la tremenda disgrazia del febbraio 1854, quando, obnubilato dalla malattia, Schumann si gettò nel Reno e fu ricoverato in clinica. Clara dovette riprendere a tutto campo la sua nomade carriera di pianista per far fronte ai bisogni della famiglia (sette figli con un ottavo in arrivo), ed il giovane Brahms si trasformò in una specie di balia asciutta che badava alla nidiata. (Mentre scrivo mi vengono in mente spezzoni di un vecchio film visto tanti anni fa, ero bambina, mi sembra si intitolasse “Canto d’Amore”, Katherine Hepburn interpretava Clara, e il ragazzo Brahms – non so chi fosse l’attore – cercava di cavarsela tra pappine e ninne-nanne…)
Dopo ciò che precede, si capisce come al compositore Brahms necessitasse un bel po’ di tempo per superare il forte senso di affinità che lo legava all’aura schumanniana, e che evitasse di misurarsi in terreni comuni, ad esempio nella sinfonia. Aggiungiamo poi la soggezione che prendeva tutti i compositori dell’ ’800 nell’approcciarsi a Beethoven, e capiremo perché non gli sia riuscito di realizzare la sua prima sinfonia prima dei quarant’anni. Accolta dalla critica, forse con un po’ di esagerazione, come se fosse “la Decima”, la sua Prima Sinfonia in do minore (1876) è sicuramente un’opera che dà il dovuto a Beethoven sia per la tonalità che per la citazione dall’Inno alla Gioia nel finale, ma che nel contempo apre una pagina del tutto nuova, si potrebbe dire di “sinfonismo nordico”. Con lei si verifica lo sblocco dell’intera fase giovanile brahmsiana. Per giungere alla Seconda Sinfonia (re maggiore) non fu necessaria una ponderazione tanto lunga: come se il ghiaccio si fosse rotto, solo un anno dopo essa uscì snella e amabile, una specie di “pastorale” che infonde senso di pace tramite la bellezza dei suoi temi e la forza dei (pur morbidi) contrasti.
Sei anni dopo, nell’estate del 1883 a Wiesbaden, nasce la Terza Sinfonia in fa maggiore, contraddistinta da grande chiarezza di idee e di costruzione. Forse meno elaborata delle precedenti, è stracolma di idee poetiche espresse in una grande varietà di luci e colori. Il suo terzo movimento (Poco allegretto, in do minore), d’una semplice grazia sognante, ha incantato fin dalla prima esecuzione. Il celebre tema è stato sfruttato in molti film, a partire da “Aimez-vous Brahms?” di Litvak, oltre che utilizzato in decine di canzoni della musica pop.
L’ultima delle sinfonie di Brahms (che evidentemente non voleva superare il numero di quattro del suo amico e maestro Schumann) fu composta anch’essa velocemente ed ebbe la prima esecuzione nel 1885. Se le prime tre possono essere considerate delle tappe di avvicinamento verso la totalità dell’espressione brahmsiana, la Quarta in mi minore è il reale coronamento del suo pensiero. Dal monumentale primo movimento, culmine drammatico e passionale, si passa al Lied spirituale dell’Adagio ed al clima esuberante dell’Allegro giocoso, fino ad approdare al quarto movimento, una Passacaglia costruita su una successione di accordi maestosi che viene poi variata in modo intenso e veemente: ogni variazione, una tappa emotiva. Se è un testamento sinfonico, non potrebbe avere toni più persuasivi. Dopo una tale passacaglia, chi oserebbe pensare a una, ulteriore, quinta sinfonia? Così – quattro – dovevano essere, e sono state.
Le Quattro di Brahms
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