Nella produzione mozartiana di quello che sarebbe stato il suo ultimo anno – il 1791 – nulla fa presagire la fine. Si è tanto parlato dei problemi finanziari che lo affliggevano, del duro colpo d’aver perso il sostenitore Giuseppe II sostituito dal musicalmente amorfo Leopoldo II, dei debiti a pioggia a cui si era ridotto: eppure noi posteri vediamo chiaramente che la soluzione era già spuntata, stava in quello strano “Flauto Magico” che si era deciso a scrivere per far piacere all’amico Schikaneder e che negli anni a venire gli avrebbe fruttato introiti apprezzabili, se mai fosse vissuto. Inoltre si era anche materializzata un’altra soluzione ai suoi problemi: accettare la trasferta in Inghilterra (dove Haydn aveva fatto la sua fortuna) invitato dall’impresario Solomon: si parlava di contratti di centinaia di sterline, di una vera manna dal cielo per i compositori del continente abituati a compensi da fame. Ma Mozart, che pure aveva girato il mondo, a trentacinque anni e con la moglie di nuovo in stato interessante, non se la sentì di lasciare a sua adorata Vienna, il Prater, gli amici, i pic-nic, le passeggiate fuori porta…
Si tuffò nella scrittura di musica da camera, due divini quintetti, l’ultimo concerto per pianoforte K595, i quartetti detti “prussiani”, i meravigliosi brani col clarinetto tra cui il concerto K622, un mottetto celestiale come l’Ave Verum, delle severe cantate massoniche, oltre a una miriade di singolarissimi brani per armonica a bicchieri o per rullo d’organo meccanico, dovuti a commissioni effimere e stravaganti. Viveva un momento di vena compositiva originalissima. Finchè spuntò l’ipotesi di scrivere per un teatro situato in periferia, l’Auf der Wieden, che era specializzato in pièces comiche e nel “Singspiel” (un’opera in tedesco con ampie parti parlate). Il promotore era Schikaneder, personaggio pittoresco di capocomico, attore, cantante, impresario, che aveva inventato questa specie di “teatro popolare”, la Zauberoper, cioè l’opera che tratta di cose magiche o fantastiche. E ci teneva così tanto a tirar Mozart dentro i suoi progetti da predisporre, nel cortile accanto al teatro, un padiglioncino di legno solo per lui (poco più di un’edicola da giornalaio), dove il compositore poteva starsene con tutto suo agio. E in quel padigliocino, durante la primavera del 1791 egli scrisse la maggior parte dell’opera divertendosi un sacco.
Frattanto il testo di Schikaneder aveva dovuto subire una serie di rocambolesche varianti: battuto sul tempo da un’altra opera ricavata dalla stessa fonte, con brusca sterzata dispose che, su uno sfondo egizio-massonico, la Regina buona e bella si trasformasse in bella e malvagia, e che il rapitore di sua figlia, in origine un mago odioso, diventasse un saggio sacerdote d’Iside. Per cui, a metà composizione, Mozart si trovò di fronte ad una Astrifiammante (la Regina della Notte) ed a un Sarastro (il sapiente Guru) circondati da splendenti triadi di damigelle e genietti benefici, inizialmente non previsti. “Se facciamo fiasco” mise le mani avanti scrivendo alla moglie “io non ne posso niente, perché una Zauberoper non l’ho ancora mai composta”.
E’ vero che dovette interrompere la composizione per occuparsi a rotta di collo di un’opera nuova commissionatagli da Praga, “La Clemenza di Tito” (ammirevole recupero di un passato operistico che già mentre scriveva non esisteva più). Ma il 30 settembre 1791, quando “Il Flauto Magico” toccò le scene, con sua stessa sorpresa scoprì che otteneva un gran successo, e che il successo sarebbe aumentato in modo esponenziale. “Sala sempre piena” scrisse alla moglie “pezzi bissati come al solito; ma ciò che mi fa più piacere è il plauso silenzioso della platea. Si vede bene quanto quest’opera stia crescendo sempre più nella stima del pubblico.”
Se nel trittico di Da Ponte (“Le Nozze di Figaro”, “Don Giovanni”, “Così fan tutte”) Mozart aveva attuato un miracoloso approfondimento psicologico quale mai più si sarebbe verificato in campo musico-teatrale, ora, approcciando il mondo fantastico dello Singspiel, attua un altro miracolo, quello di delineare dei personaggi da favola, dei simboli da teatro dei burattini, degli esseri con la psicologia infantile e sommaria, senza che perdano di consistenza o si ridicolizzino. Prima aveva descritto la vita pulsante e realistica degli eroi dei drammi. Ora, nel suo ultimo anno di vita, reso quasi “ingenuamente veggente”, è catturato dalla favola. Non c’è più il reale, ma il sognato, non ci sono più le ambizioni mondane, ma i prototipi simbolici: “lo occupa una specie di ideale etico, un messaggio universale da consegnare all’umanità” un recupero “dell’età dell’oro, del paradiso terrestre al quale l’uomo aspira a ritornare, l’idea giusnaturalista della felicità intesa come un diritto naturale” (le frasi virgolettate sono di Massimo Mila). E’ bello, a mio parere, considerare “Il Flauto Magico” anche sotto questo aspetto filosofico, prima di recarci al Teatro Regio per assistere all’imminente arrivo di Sarastro sul suo carro d’oro!
Filosofia del Flauto Magico
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